5° Convegno Ecclesiale Nazionale
Prospettive
Discorso conclusivo del Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
1. L’occasione propizia e provvidenziale del
Convegno
Cari fratelli nel Signore, è con cuore grato che
concludiamo i lavori di questo Convegno ecclesiale, occasione di
grazia e tempo di ascolto della Parola e della volontà di Dio sulla
nostra Chiesa. Veramente il convenire, che ha scandito i decenni dopo
il Concilio, è divenuto preziosa tradizione di confronto e
discernimento a livello comunitario; ci ha aiutato e ci aiuta a
recepire le istanze conciliari, a rafforzare la nostra testimonianza
di fede e a contribuire al bene comune del Paese.
Per molti mesi abbiamo preparato queste giornate, in
modo che non fossero un evento isolato, ma il punto di arrivo di un
percorso condiviso e approfondito. Il frutto di tale itinerario
rappresenta fin d’ora un nuovo punto di partenza per il cammino
delle nostre comunità e dei singoli credenti. In questo senso,
sarebbe parziale affermare che la Chiesa italiana ha celebrato in
questi giorni il suo quinto Convegno ecclesiale; ben di più, essa ha
scelto di assumere il percorso del Convegno e di mettersi in gioco,
in un impegno di conversione finalizzato a individuare le parole più
efficaci, le categorie più consone e i gesti più autentici
attraverso i quali portare il Vangelo nel nostro tempo agli uomini di
oggi.
È uno scopo che ci è stato presentato con chiarezza
nella prolusione con cui Mons. Nosiglia ha aperto il nostro
appuntamento fiorentino: con lui ringraziamo l’intero Comitato
preparatorio e la Giunta per l’impegno costante e qualificato che
ci hanno offerto. La gratitudine va anche ai moderatori, ai
facilitatori dei gruppi di lavoro e ai relatori finali; va a ogni
convegnista, per l’investimento di tempo ed energia che ha messo a
disposizione con la sua partecipazione. Abbiamo apprezzato le
meditazioni spirituali e il respiro degli eventi culturali che ci
sono stati proposti. La nostra riconoscenza è, quindi, per questa
Chiesa e per il suo pastore – il Cardinale Giuseppe Betori –, per
l’accoglienza che abbiamo ricevuto anche attraverso il servizio di
centinaia di volontari, che è integrato con il prezioso lavoro della
Segreteria Generale della CEI. Siamo grati, infine, alle autorità
civili che, in forme diverse, si sono rese presenti a questo nostro
evento: dal Sindaco di questa città, Dario Nardella, al Presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella. Come comunità ecclesiale
assumiamo con rinnovato impegno la disponibilità all’incontro e al
dialogo per favorire l’amicizia sociale nel Paese e cercare insieme
il bene comune.
Cari fratelli, quello fatto insieme è stato un cammino
sinodale, che ci ha fatto sperimentare la bellezza e la forza di
essere parte viva del popolo di Dio, sostenuti dalla comunione
fraterna, che in Cristo trova la sua fonte e che ci apre quindi alla
condivisione, alla correzione vicendevole e alla comunicazione di
idee e carismi. L’immagine del corpo, valorizzata in più punti del
Nuovo Testamento per raccontare l’essenza della Chiesa, ci fa
sentire responsabili gli uni degli altri; una responsabilità che si
estende anche oltre la comunità cristiana e raggiunge tutte le
persone, fino alle più lontane, ben sapendo che “non esistono
lontani che siano troppo distanti, ma soltanto prossimi da
raggiungere”.
Ecco cosa significa che la Chiesa è madre: lo è verso
di noi, che ha generato e istruito nella fede, e lo è verso tutti
gli uomini, soprattutto gli ultimi, che da lei devono potersi sentire
accolti, consolati e spronati. È nelle sue parole e nelle sue scelte
– perciò in noi – che chi la guarda può incontrare un segno
dell’amore e della tenerezza di Dio, e uno strumento di unità.
Tale consapevolezza ci fa percepire l’importanza che la nostra
testimonianza sia limpida, che il nostro linguaggio raggiunga le
menti e i cuori, e che sappiamo avvicinarci con compassione alle
persone nelle tante fragilità che sperimentano ogni giorno.
Il Santo Padre, nel discorso programmatico che ci ha
rivolto martedì scorso nella Cattedrale di Firenze, ci ha mostrato
lo spirito e le coordinate fondamentali che si attende dalla nostra
Chiesa. Ci ha chiesto autenticità e gratuità, spirito di servizio,
attenzione ai poveri, capacità di dialogo e di accoglienza; ci ha
esortati a prendere il largo con coraggio e a innovare con
creatività, nella compagnia di tutti coloro che sono animati da
buona volontà.
Il testo del Santo Padre andrà meditato con attenzione,
quale premessa per riprendere, su suo invito, l’Esortazione
apostolica Evangelii Gaudium
nelle nostre comunità e nei gruppi di fedeli, fino a trarre da essa
criteri pratici con cui attuarne le disposizioni.
2. Il bisogno di salvezza da parte di un’umanità
fragile e ferita
Le due relazioni introduttive al Convegno ci hanno
richiamato le tante povertà che caratterizzano il nostro contesto
sociale, e vanno a incidere sul vissuto concreto delle persone,
lasciandole talora ferite ai bordi della strada. L’uomo rimane
spesso vittima delle sue fragilità spirituali e della disarmonia che
deriva dalla rottura di alleanze vitali, come ci ricordava Mons.
Giuseppe Lorizio. È estremamente diffuso, oggi, un profondo senso di
solitudine e di abbandono; un sentimento di vuoto, legato alla
mancanza di mete alte e di persone con le quali condividere obiettivi
e impegnarsi per conseguirli. La nostra stessa vita – ci ha aiutato
a riconoscere il Prof. Mauro Magatti – rischia di diventare
un’astrazione, sempre più frammentata, priva di consistenza e
separata da ciò che la circonda, perfino dagli affetti più
profondi. Quanti passano buona parte delle loro giornate in mezzo ad
altri, ma senza conoscere in modo profondo alcuno e senza essere da
alcuno conosciuti nella loro intimità! Questo genera un disagio
profondo e insoddisfazione, senza che se ne comprendano le cause, le
quali sono da cercare non tanto nella malizia o nell’egoismo dei
singoli, ma nella miseria culturale che hanno respirato, nella
carente o del tutto assente educazione spirituale e umana, che ha
fatto mancare la percezione e l’esperienza dei valori più genuini
e non ha guidato a essi. Ai nostri giovani la cultura dominante offre
ideali non autentici, legati al perseguimento di un successo effimero
o di soddisfazioni momentanee. E lo fa con una pervasività e
un’efficacia quasi disarmanti.
È così che tanti sono spinti ad accettare come verità
assolute e incontestabili che il tempo sia denaro, con la conseguenza
che solitamente non ne rimane per stare vicino agli ammalati e agli
anziani; che il valore delle persone sia legato alla loro efficienza,
con l’effetto di scartare o sopprimere la vita imperfetta o
improduttiva; che dipenda essenzialmente dai beni materiali la
qualità della vita. Ancora, che ognuno debba cavarsela da solo,
tentazione che alimenta l’individualismo e sprona alla diffidenza e
alla falsità, facendo mancare il collante della fiducia che tiene
unita una società. Tutto questo genera un carico di sofferenza
profonda e in genere inespressa, che rivela il bisogno di una luce
per orientare il proprio cammino, e di una mano per non compierlo da
soli.
Partendo dalla fede in Cristo Gesù, il Prof. Lorizio ci
ha indicato la via dell’umanesimo della nuova alleanza, che si deve
realizzare nelle alleanze che la vita quotidiana ci chiama a
custodire e a risanare, se infrante: l’alleanza col creato,
l’alleanza uomo-donna, l’alleanza fra generazioni, l’alleanza
fra popoli, culture e religioni, l’alleanza fra i singoli e le
istituzioni sia civili che ecclesiali. Il Prof. Magatti, a sua volta,
ci ha provocati a un umanesimo della concretezza, con cui combattere
la frammentazione e riqualificare il rapporto tra la nostra persona e
la realtà che ci circonda, nella responsabilità verso la rete di
rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Ci ha anche
ricordato ciò che caratterizza positivamente la storia del nostro
Paese – il ‘made in Italy’, il volontariato, le cento città,
l’artigianato, l’arte, la cura, la carità, le tante forme di
sussidiarietà ed economia civile, la famiglia –: sono espressioni
già presenti nella realtà, preziosa eredità affidata alla nostra
responsabilità.
Da questa consapevolezza muove lo stesso progetto
educativo del decennio in corso, declinato nelle cinque vie indicate
dal Convegno che tracciano la via missionaria da percorrere per
portare a tutti il messaggio di speranza che proviene da Vangelo, e
per ricostruire, sulla base di principi più solidi, un tessuto
sociale maggiormente vivibile e solidale, che veicoli valori
autentici e umanizzanti, e faciliti il conseguimento di una felicità
vera e non surrogata.
3. Lo sguardo a Gesù come ispirazione di un nuovo
umanesimo
La ricostruzione dell’umano, che la Chiesa avverte
come suo compito primario e inscindibile dall’annuncio del Vangelo,
passa da un’attenta conoscenza delle dinamiche e dei bisogni del
nostro mondo, quindi dall’impegno a un’inclusione sociale che ha
a cuore innanzitutto i poveri. Tale impegno operoso muove da un
costante riferimento alla persona di Gesù Cristo, modello e maestro
di umanità, che dell’uomo è il prototipo e il compimento.
“Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità
di Gesù, scoprendo in lui i tratti del volto autentico dell’uomo”
– ci ha detto martedì il Papa –: “Solo se riconosciamo Gesù
nella Sua verità, saremo in grado di guardare la verità della
nostra condizione umana e potremo portare il nostro contributo alla
piena umanizzazione della società”
Spetta a noi mostrare a tutti l’infinito tesoro racchiuso nella
sua persona, e la luce che da Lui si irradia sulle nostre
inquietudini, sulle problematiche e le varie situazioni di vita.
Lasciamoci guardare da Lui, “misericordiae
vultus”, consapevoli che la condizione
primaria di ogni riforma della Chiesa richiede di essere radicati in
Cristo. Contempliamo, quindi, senza stancarci l’umanità di Gesù:
in Lui siamo ridestati alla vita, riconosciamo un’esistenza
unificata, raccolta attorno alla costante ricerca della volontà del
Padre, e al tempo stesso tutta protesa verso il prossimo.
Al nostro mondo, spesso così esposto al rischio
dell’autosufficienza o alla tentazione di ridurre Dio ad astratta
ideologia, l’esistenza di Gesù, fattasi dono perfetto, rappresenta
l’antidoto più efficace. La vita di ognuno, infatti, “si decide
sulla capacità di donarsi”; è in questo trascendere se stessa
che la vita “arriva a essere feconda”. Non solo: proprio nel
dedicarsi al servizio dei fratelli – a partire da una convinta
opzione per i poveri – il Signore indica la via per quella
beatitudine che il Santo Padre ci ha proposto come uno dei tratti
distintivi del credente. Il Papa ci ricordava che la gioia del
cristiano è quella di chi conosce “la ricchezza della solidarietà,
del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del
sacrificio quotidiano di un lavoro (…) svolto per amore verso le
persone care; e anche quello della proprie miserie che, tuttavia,
quando sono vissute con fiducia nella provvidenza e nella
misericordia di Dio, alimentano una grandezza umile”. Come pastori,
sappiamo quanto queste esperienze siano ancora largamente diffuse tra
la nostra gente.
Con i suoi gesti, le sue parole e i suoi silenzi, Gesù
ci mostra anche come vivere il dolore senza disperare e come reagire
alle provocazioni non con la violenza, ma con la forza della verità
e del perdono. Questa mitezza conduce a riconoscere il mistero
divino, sulla scorta del centurione che assiste alla sua morte in
croce. Proprio nella massima debolezza sta il momento di massima
rivelazione di Dio, la sua gloria. Mistero stupendo e sconvolgente,
che ancora e ogni giorno deve ribaltare i nostri criteri di
valutazione su ciò che vediamo e su quanto ci accade. Dio rivela la
sua potenza nella debolezza: ecco il cardine del Vangelo che, se
nuovamente accolto, disegna un preciso progetto di vita che rovescia
qualsiasi canone antropologico inautentico e oppressivo, e porta
anche a un utilizzo del denaro, dei mezzi e delle stesse strutture
all’insegna dell’essenzialità, della disponibilità e della
gratuità. Allora le Beatitudini evangeliche sono davvero “lo
specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo
camminando sul sentiero giusto”.
4. Le cinque vie, per una Chiesa sempre più
missionaria
Per seguire e imitare Gesù, rendendolo presente agli
occhi del nostro mondo, come Chiesa siamo chiamati a vivere in uno
stato di continua missione. Nell’annuncio e nella testimonianza del
Vangelo a tutti gli uomini riconosciamo il senso e il centro del
nostro esistere. È quanto il Santo Padre non si stanca di dirci con
la sua parola e il suo esempio, spronarci a una conversione pastorale
che faccia della Chiesa una comunità aperta, protesa verso le
periferie geografiche ed esistenziali. È quanto abbiamo messo a tema
del nostro Convegno, proponendoci di percorrere con sempre maggior
determinazione l’unica via, articolata nell’uscire,
nell’annunciare, nell’abitare, nell’educare e nel trasfigurare.
L’impegno a valorizzare fin dal prossimo futuro quanto
emerso dai lavori di gruppo e presentato nelle sintesi finali, mi
permette ora di proporre semplicemente alcune sottolineature.
Dobbiamo anzitutto uscire,
andare. Non basta essere accoglienti: dobbiamo per primi muoverci
verso l’altro, perché il prossimo da amare non è colui che ci
chiede aiuto, ma colui del quale ci siamo fatti prossimi. “Desidero
una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna,
accarezza”,
ci ha detto Papa Francesco. Tale sia lo spirito con cui anche noi
agiamo: quello di chi ha premura verso tutti e va loro incontro per
incontrarli e creare ponti con loro, e tra loro e Cristo. Dobbiamo
uscire e creare condivisione e fraternità: le nostre comunità e
associazioni, i gruppi e i singoli cristiani, vivano sempre con
questo spirito missionario, e su di esso si verifichino
periodicamente, poiché da ciò dipende l’autenticità della
proposta. Ben venga, quindi, l’impegno – appena risuonato – a
formare all’audacia della testimonianza, come quello di promuovere
il coraggio della sperimentazione, secondo quanto richiesto
soprattutto dai giovani.
Il passaggio successivo consiste nell’annunciare
la persona e le parole del Signore, secondo le modalità più adatte
perché, senza l’annuncio esplicito, l’incontro e la
testimonianza rimangono sterili o quantomeno incompleti. Per portare
efficacemente la Parola – l’abbiamo appena sentito – bisogna
esserne uditori attenti, fino a restarne trasformati: è davvero
necessario un rinnovato sforzo di approfondimento e condivisione
della Parola, se vogliamo far nostro il pensiero e la mentalità
biblica. Da qui scaturisce uno sguardo evangelico sulla realtà; da
qui si diviene capaci di relazioni vere, quindi di incontro,
partecipazione e condivisione; da qui, facciamo nostra l’attenzione
a non escludere nessuno. Sì, per quanto importante, un grande cuore
non basta: la formazione degli operatori, sacerdoti inclusi, deve
interrogarci quanto l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Un
importante capitolo è pure quello che riguarda la comunicazione e la
condivisione del messaggio attraverso le moderne tecnologie, delle
quali è importante servirsi con sapienza e senza timore.
La terza tappa della missione consiste nell’abitare,
termine con il quale ci richiamiamo a una presenza dei credenti sul
territorio e nella società, secondo un impegno concreto di
cittadinanza, in base alle possibilità di ognuno: nell’impegno
amministrativo e politico in senso stretto, ma anche attraverso un
attivo interessamento per le varie problematiche sociali e la
partecipazione a diverse iniziative. Abitare significa essere
radicati nel territorio, conoscendone le esigenze, aderendo a
iniziative a favore del bene comune, mettendo in pratica la carità,
che completa l’annuncio e senza la quale esso può rimanere parola
vuota. “Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la
gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie – ci ha detto il
Santo Padre – è l’unico modo per poterla aiutare, è l’unico
modo per parlare ai cuori toccando la loro esperienza quotidiana”
Qui, un grazie convinto va speso per le diverse forme di
associazionismo e di partecipazione: sì, non partiamo da zero! Nel
contempo, anche alla luce di recenti fatti di cronaca, ribadiamo che
l’impegno del cattolico nella sfera pubblica deve testimoniare
coerenza e trasparenza. Sono rimasto colpito soprattutto dalle attese
emerse dai giovani, dalla loro richiesta di riconoscimento, di spazi
e di valorizzazione: sono condizioni perché la fiducia che diciamo
di avere in loro non rimanga a livello di parole, troppe volte
contraddette dalla nostra povera testimonianza.
La comunità e i credenti sono poi chiamati al compito
di educare per rendere
gli atti buoni non un elemento sporadico, ma virtù, abitudini della
persona, modi di agire e di pensare stabili, patrimonio in cui la
persona si riconosce. Sì, è una famiglia ed è una comunità quella
che educa: entrambe necessitano di adulti che siano tali. Ben venga
tanto l’indicazione ad accompagnare le famiglie – anche con
percorsi di educazione alla genitorialità e alla reciprocità –
quanto di porre nuova attenzione per la scuola e l’Università,
come pure a fare rete con le diverse istituzioni educative presenti
sul territorio creando sinergie e costruendo relazioni che portino a
una positiva integrazione di esperienze e di conoscenze.
Tutti questi passaggi, e gli sforzi che ne accompagnano
la realizzazione, sono tesi a trasfigurare
le persone e le relazioni, interpersonali e sociali. Il messaggio
evangelico, se accolto e fatto proprio dalle diverse realtà umane,
trasfigura, scardinando le strutture di peccato e di oppressione,
facendo sì che l’umanesimo appreso da Cristo diventi concreto e
vita delle persone, fino a raggiungere ogni luogo dell’umano,
rendendoci compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti.
Abbiamo sentito le fatiche di questo processo, legate a un certo
attivismo pastorale, all’insufficiente integrazione tra liturgia e
vita, alla frammentarietà delle proposte. Sono condizioni che vanno
considerate con attenzione, lasciandoci aiutare dalla richiesta di
interiorità, di spiritualità e di accompagnamento, di cui ancora
una volta proprio i più giovani sono i primi interpreti.
5.
Per uno stile sinodale
È significativo pensare che il percorso del Convegno
continua nell’imminente Anno Santo di quella Misericordia, che
altro non è che il nome dell’amore che Dio ha per noi: amore nella
forma della fedeltà assoluta, che genera in noi stabilità,
sicurezza e fiducia in qualunque situazione ci troviamo. La
misericordia è la via attraverso la quale l’amore del Signore si
rivela e raggiunge il mondo ferito, avvolgendolo con tenerezza che
consola e rigenerando – qual grembo materno – a nuova vita.
In fondo, è l’amore misericordioso che genera la
Chiesa e che ci porta a camminare insieme. L’assunzione di uno
stile sinodale – perché giunga ad avviare processi – richiede
precisi atteggiamenti, che dicono anzitutto il nostro modo di porci
di fronte al volto dell’altro, e indicano nella prospettiva della
relazione e dell’incontro la strada di una continua umanizzazione.
Ancora: uno stile sinodale esige anche un metodo,
all’insegna della concretezza, del confrontarsi insieme sulle
questioni che animano le nostre comunità. Vive di cura per
l’ascolto, di pazienza per l’attesa, di apertura per
l’accoglienza di posizioni diverse, di disponibilità a lavorare
insieme.
Infine, per dare concretezza al discernimento, uno stile
sinodale deve sapersi dare obiettivi verso i quali tendere: di qui
l’importanza di riprendere in mano l’Esortazione apostolica
Evangelii gaudium.
Con questo spirito facciamo ritorno alle nostre Chiese e
ai nostri territori, senza la paura di guardare in faccia la realtà
– anche le ombre -, ma con la lieta certezza di chi riconosce,
anche nella complessità del nostro tempo, la presenza operosa dello
Spirito Santo, la fedeltà di Dio al mondo.
Vorremmo, quindi, che questo nostro salutarci fosse come
un abbraccio che dai Pastori si muove affettuoso e grato verso di
voi, cari delegati: in voi vediamo il volto delle comunità cristiane
disseminate nel nostro amato Paese. Grazie perché ci siete vicini e
ci sostenete con la vostra preghiera e partecipazione.
Ma poi l’abbraccio si allarga, e da voi va incontro ai
vostri Vescovi e sacerdoti, riconoscendo in noi il segno povero ma
vero di Gesù buon Pastore. I nostri limiti vi sono noti, ma
conoscete anche la sincerità dei nostri cuori, la dedizione sulle
frontiere del quotidiano, il desiderio di servire il popolo cui Dio
ci ha inviati. Noi siamo lieti del vostro abbraccio, e nei vostri
volti leggiamo simpatia e fiducia, nelle vostre voci sentiamo
incoraggiamento e sostegno. Anche noi – come tutti – ne abbiamo
bisogno!
Infine, il nostro abbraccio – di Popolo e Pastori –
si dilata, quasi a raggiungere e stringere la persona del Successore
di Pietro: Francesco è il suo nome. A lui, la Chiesa italiana vuole
riaffermare affettuosa vicinanza e operosa dedizione, rispondendo
alla particolare attenzione, alla visibile stima, al paterno affetto
con cui guida il nostro cammino.
Sì, che l’eco dei nostri cuori giunga fino al suo
cuore di universale Pastore, e confermi – a Lui che conferma noi
con il carisma di Pietro – ciò che i figli, con linguaggio
semplice e diretto, dicono ai loro più cari: “Le vogliamo bene!”.