venerdì 13 novembre 2015

Discorso conclusivo del Card. Angelo Bagnasco


5° Convegno Ecclesiale Nazionale 

Prospettive 

Discorso conclusivo del Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana


1. L’occasione propizia e provvidenziale del Convegno

Cari fratelli nel Signore, è con cuore grato che concludiamo i lavori di questo Convegno ecclesiale, occasione di grazia e tempo di ascolto della Parola e della volontà di Dio sulla nostra Chiesa. Veramente il convenire, che ha scandito i decenni dopo il Concilio, è divenuto preziosa tradizione di confronto e discernimento a livello comunitario; ci ha aiutato e ci aiuta a recepire le istanze conciliari, a rafforzare la nostra testimonianza di fede e a contribuire al bene comune del Paese.
Per molti mesi abbiamo preparato queste giornate, in modo che non fossero un evento isolato, ma il punto di arrivo di un percorso condiviso e approfondito. Il frutto di tale itinerario rappresenta fin d’ora un nuovo punto di partenza per il cammino delle nostre comunità e dei singoli credenti. In questo senso, sarebbe parziale affermare che la Chiesa italiana ha celebrato in questi giorni il suo quinto Convegno ecclesiale; ben di più, essa ha scelto di assumere il percorso del Convegno e di mettersi in gioco, in un impegno di conversione finalizzato a individuare le parole più efficaci, le categorie più consone e i gesti più autentici attraverso i quali portare il Vangelo nel nostro tempo agli uomini di oggi.
È uno scopo che ci è stato presentato con chiarezza nella prolusione con cui Mons. Nosiglia ha aperto il nostro appuntamento fiorentino: con lui ringraziamo l’intero Comitato preparatorio e la Giunta per l’impegno costante e qualificato che ci hanno offerto. La gratitudine va anche ai moderatori, ai facilitatori dei gruppi di lavoro e ai relatori finali; va a ogni convegnista, per l’investimento di tempo ed energia che ha messo a disposizione con la sua partecipazione. Abbiamo apprezzato le meditazioni spirituali e il respiro degli eventi culturali che ci sono stati proposti. La nostra riconoscenza è, quindi, per questa Chiesa e per il suo pastore – il Cardinale Giuseppe Betori –, per l’accoglienza che abbiamo ricevuto anche attraverso il servizio di centinaia di volontari, che è integrato con il prezioso lavoro della Segreteria Generale della CEI. Siamo grati, infine, alle autorità civili che, in forme diverse, si sono rese presenti a questo nostro evento: dal Sindaco di questa città, Dario Nardella, al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Come comunità ecclesiale assumiamo con rinnovato impegno la disponibilità all’incontro e al dialogo per favorire l’amicizia sociale nel Paese e cercare insieme il bene comune.
Cari fratelli, quello fatto insieme è stato un cammino sinodale, che ci ha fatto sperimentare la bellezza e la forza di essere parte viva del popolo di Dio, sostenuti dalla comunione fraterna, che in Cristo trova la sua fonte e che ci apre quindi alla condivisione, alla correzione vicendevole e alla comunicazione di idee e carismi. L’immagine del corpo, valorizzata in più punti del Nuovo Testamento per raccontare l’essenza della Chiesa, ci fa sentire responsabili gli uni degli altri; una responsabilità che si estende anche oltre la comunità cristiana e raggiunge tutte le persone, fino alle più lontane, ben sapendo che “non esistono lontani che siano troppo distanti, ma soltanto prossimi da raggiungere”1.
Ecco cosa significa che la Chiesa è madre: lo è verso di noi, che ha generato e istruito nella fede, e lo è verso tutti gli uomini, soprattutto gli ultimi, che da lei devono potersi sentire accolti, consolati e spronati. È nelle sue parole e nelle sue scelte – perciò in noi – che chi la guarda può incontrare un segno dell’amore e della tenerezza di Dio, e uno strumento di unità. Tale consapevolezza ci fa percepire l’importanza che la nostra testimonianza sia limpida, che il nostro linguaggio raggiunga le menti e i cuori, e che sappiamo avvicinarci con compassione alle persone nelle tante fragilità che sperimentano ogni giorno.
Il Santo Padre, nel discorso programmatico che ci ha rivolto martedì scorso nella Cattedrale di Firenze, ci ha mostrato lo spirito e le coordinate fondamentali che si attende dalla nostra Chiesa. Ci ha chiesto autenticità e gratuità, spirito di servizio, attenzione ai poveri, capacità di dialogo e di accoglienza; ci ha esortati a prendere il largo con coraggio e a innovare con creatività, nella compagnia di tutti coloro che sono animati da buona volontà.
Il testo del Santo Padre andrà meditato con attenzione, quale premessa per riprendere, su suo invito, l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium nelle nostre comunità e nei gruppi di fedeli, fino a trarre da essa criteri pratici con cui attuarne le disposizioni.

2. Il bisogno di salvezza da parte di un’umanità fragile e ferita
Le due relazioni introduttive al Convegno ci hanno richiamato le tante povertà che caratterizzano il nostro contesto sociale, e vanno a incidere sul vissuto concreto delle persone, lasciandole talora ferite ai bordi della strada. L’uomo rimane spesso vittima delle sue fragilità spirituali e della disarmonia che deriva dalla rottura di alleanze vitali, come ci ricordava Mons. Giuseppe Lorizio. È estremamente diffuso, oggi, un profondo senso di solitudine e di abbandono; un sentimento di vuoto, legato alla mancanza di mete alte e di persone con le quali condividere obiettivi e impegnarsi per conseguirli. La nostra stessa vita – ci ha aiutato a riconoscere il Prof. Mauro Magatti – rischia di diventare un’astrazione, sempre più frammentata, priva di consistenza e separata da ciò che la circonda, perfino dagli affetti più profondi. Quanti passano buona parte delle loro giornate in mezzo ad altri, ma senza conoscere in modo profondo alcuno e senza essere da alcuno conosciuti nella loro intimità! Questo genera un disagio profondo e insoddisfazione, senza che se ne comprendano le cause, le quali sono da cercare non tanto nella malizia o nell’egoismo dei singoli, ma nella miseria culturale che hanno respirato, nella carente o del tutto assente educazione spirituale e umana, che ha fatto mancare la percezione e l’esperienza dei valori più genuini e non ha guidato a essi. Ai nostri giovani la cultura dominante offre ideali non autentici, legati al perseguimento di un successo effimero o di soddisfazioni momentanee. E lo fa con una pervasività e un’efficacia quasi disarmanti.
È così che tanti sono spinti ad accettare come verità assolute e incontestabili che il tempo sia denaro, con la conseguenza che solitamente non ne rimane per stare vicino agli ammalati e agli anziani; che il valore delle persone sia legato alla loro efficienza, con l’effetto di scartare o sopprimere la vita imperfetta o improduttiva; che dipenda essenzialmente dai beni materiali la qualità della vita. Ancora, che ognuno debba cavarsela da solo, tentazione che alimenta l’individualismo e sprona alla diffidenza e alla falsità, facendo mancare il collante della fiducia che tiene unita una società. Tutto questo genera un carico di sofferenza profonda e in genere inespressa, che rivela il bisogno di una luce per orientare il proprio cammino, e di una mano per non compierlo da soli.
Partendo dalla fede in Cristo Gesù, il Prof. Lorizio ci ha indicato la via dell’umanesimo della nuova alleanza, che si deve realizzare nelle alleanze che la vita quotidiana ci chiama a custodire e a risanare, se infrante: l’alleanza col creato, l’alleanza uomo-donna, l’alleanza fra generazioni, l’alleanza fra popoli, culture e religioni, l’alleanza fra i singoli e le istituzioni sia civili che ecclesiali. Il Prof. Magatti, a sua volta, ci ha provocati a un umanesimo della concretezza, con cui combattere la frammentazione e riqualificare il rapporto tra la nostra persona e la realtà che ci circonda, nella responsabilità verso la rete di rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Ci ha anche ricordato ciò che caratterizza positivamente la storia del nostro Paese – il ‘made in Italy’, il volontariato, le cento città, l’artigianato, l’arte, la cura, la carità, le tante forme di sussidiarietà ed economia civile, la famiglia –: sono espressioni già presenti nella realtà, preziosa eredità affidata alla nostra responsabilità.
Da questa consapevolezza muove lo stesso progetto educativo del decennio in corso, declinato nelle cinque vie indicate dal Convegno che tracciano la via missionaria da percorrere per portare a tutti il messaggio di speranza che proviene da Vangelo, e per ricostruire, sulla base di principi più solidi, un tessuto sociale maggiormente vivibile e solidale, che veicoli valori autentici e umanizzanti, e faciliti il conseguimento di una felicità vera e non surrogata.

3. Lo sguardo a Gesù come ispirazione di un nuovo umanesimo
La ricostruzione dell’umano, che la Chiesa avverte come suo compito primario e inscindibile dall’annuncio del Vangelo, passa da un’attenta conoscenza delle dinamiche e dei bisogni del nostro mondo, quindi dall’impegno a un’inclusione sociale che ha a cuore innanzitutto i poveri. Tale impegno operoso muove da un costante riferimento alla persona di Gesù Cristo, modello e maestro di umanità, che dell’uomo è il prototipo e il compimento. “Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in lui i tratti del volto autentico dell’uomo”2 – ci ha detto martedì il Papa –: “Solo se riconosciamo Gesù nella Sua verità, saremo in grado di guardare la verità della nostra condizione umana e potremo portare il nostro contributo alla piena umanizzazione della società”3 Spetta a noi mostrare a tutti l’infinito tesoro racchiuso nella sua persona, e la luce che da Lui si irradia sulle nostre inquietudini, sulle problematiche e le varie situazioni di vita. Lasciamoci guardare da Lui, “misericordiae vultus”, consapevoli che la condizione primaria di ogni riforma della Chiesa richiede di essere radicati in Cristo. Contempliamo, quindi, senza stancarci l’umanità di Gesù: in Lui siamo ridestati alla vita, riconosciamo un’esistenza unificata, raccolta attorno alla costante ricerca della volontà del Padre, e al tempo stesso tutta protesa verso il prossimo.
Al nostro mondo, spesso così esposto al rischio dell’autosufficienza o alla tentazione di ridurre Dio ad astratta ideologia, l’esistenza di Gesù, fattasi dono perfetto, rappresenta l’antidoto più efficace. La vita di ognuno, infatti, “si decide sulla capacità di donarsi”; è in questo trascendere se stessa che la vita “arriva a essere feconda”. Non solo: proprio nel dedicarsi al servizio dei fratelli – a partire da una convinta opzione per i poveri – il Signore indica la via per quella beatitudine che il Santo Padre ci ha proposto come uno dei tratti distintivi del credente. Il Papa ci ricordava che la gioia del cristiano è quella di chi conosce “la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro (…) svolto per amore verso le persone care; e anche quello della proprie miserie che, tuttavia, quando sono vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio, alimentano una grandezza umile”. Come pastori, sappiamo quanto queste esperienze siano ancora largamente diffuse tra la nostra gente.
Con i suoi gesti, le sue parole e i suoi silenzi, Gesù ci mostra anche come vivere il dolore senza disperare e come reagire alle provocazioni non con la violenza, ma con la forza della verità e del perdono. Questa mitezza conduce a riconoscere il mistero divino, sulla scorta del centurione che assiste alla sua morte in croce. Proprio nella massima debolezza sta il momento di massima rivelazione di Dio, la sua gloria. Mistero stupendo e sconvolgente, che ancora e ogni giorno deve ribaltare i nostri criteri di valutazione su ciò che vediamo e su quanto ci accade. Dio rivela la sua potenza nella debolezza: ecco il cardine del Vangelo che, se nuovamente accolto, disegna un preciso progetto di vita che rovescia qualsiasi canone antropologico inautentico e oppressivo, e porta anche a un utilizzo del denaro, dei mezzi e delle stesse strutture all’insegna dell’essenzialità, della disponibilità e della gratuità. Allora le Beatitudini evangeliche sono davvero “lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto”.

4. Le cinque vie, per una Chiesa sempre più missionaria
Per seguire e imitare Gesù, rendendolo presente agli occhi del nostro mondo, come Chiesa siamo chiamati a vivere in uno stato di continua missione. Nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo a tutti gli uomini riconosciamo il senso e il centro del nostro esistere. È quanto il Santo Padre non si stanca di dirci con la sua parola e il suo esempio, spronarci a una conversione pastorale che faccia della Chiesa una comunità aperta, protesa verso le periferie geografiche ed esistenziali. È quanto abbiamo messo a tema del nostro Convegno, proponendoci di percorrere con sempre maggior determinazione l’unica via, articolata nell’uscire, nell’annunciare, nell’abitare, nell’educare e nel trasfigurare.
L’impegno a valorizzare fin dal prossimo futuro quanto emerso dai lavori di gruppo e presentato nelle sintesi finali, mi permette ora di proporre semplicemente alcune sottolineature.
Dobbiamo anzitutto uscire, andare. Non basta essere accoglienti: dobbiamo per primi muoverci verso l’altro, perché il prossimo da amare non è colui che ci chiede aiuto, ma colui del quale ci siamo fatti prossimi. “Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”,4 ci ha detto Papa Francesco. Tale sia lo spirito con cui anche noi agiamo: quello di chi ha premura verso tutti e va loro incontro per incontrarli e creare ponti con loro, e tra loro e Cristo. Dobbiamo uscire e creare condivisione e fraternità: le nostre comunità e associazioni, i gruppi e i singoli cristiani, vivano sempre con questo spirito missionario, e su di esso si verifichino periodicamente, poiché da ciò dipende l’autenticità della proposta. Ben venga, quindi, l’impegno – appena risuonato – a formare all’audacia della testimonianza, come quello di promuovere il coraggio della sperimentazione, secondo quanto richiesto soprattutto dai giovani.
Il passaggio successivo consiste nell’annunciare la persona e le parole del Signore, secondo le modalità più adatte perché, senza l’annuncio esplicito, l’incontro e la testimonianza rimangono sterili o quantomeno incompleti. Per portare efficacemente la Parola – l’abbiamo appena sentito – bisogna esserne uditori attenti, fino a restarne trasformati: è davvero necessario un rinnovato sforzo di approfondimento e condivisione della Parola, se vogliamo far nostro il pensiero e la mentalità biblica. Da qui scaturisce uno sguardo evangelico sulla realtà; da qui si diviene capaci di relazioni vere, quindi di incontro, partecipazione e condivisione; da qui, facciamo nostra l’attenzione a non escludere nessuno. Sì, per quanto importante, un grande cuore non basta: la formazione degli operatori, sacerdoti inclusi, deve interrogarci quanto l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Un importante capitolo è pure quello che riguarda la comunicazione e la condivisione del messaggio attraverso le moderne tecnologie, delle quali è importante servirsi con sapienza e senza timore.
La terza tappa della missione consiste nell’abitare, termine con il quale ci richiamiamo a una presenza dei credenti sul territorio e nella società, secondo un impegno concreto di cittadinanza, in base alle possibilità di ognuno: nell’impegno amministrativo e politico in senso stretto, ma anche attraverso un attivo interessamento per le varie problematiche sociali e la partecipazione a diverse iniziative. Abitare significa essere radicati nel territorio, conoscendone le esigenze, aderendo a iniziative a favore del bene comune, mettendo in pratica la carità, che completa l’annuncio e senza la quale esso può rimanere parola vuota. “Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie – ci ha detto il Santo Padre – è l’unico modo per poterla aiutare, è l’unico modo per parlare ai cuori toccando la loro esperienza quotidiana”5 Qui, un grazie convinto va speso per le diverse forme di associazionismo e di partecipazione: sì, non partiamo da zero! Nel contempo, anche alla luce di recenti fatti di cronaca, ribadiamo che l’impegno del cattolico nella sfera pubblica deve testimoniare coerenza e trasparenza. Sono rimasto colpito soprattutto dalle attese emerse dai giovani, dalla loro richiesta di riconoscimento, di spazi e di valorizzazione: sono condizioni perché la fiducia che diciamo di avere in loro non rimanga a livello di parole, troppe volte contraddette dalla nostra povera testimonianza.
La comunità e i credenti sono poi chiamati al compito di educare per rendere gli atti buoni non un elemento sporadico, ma virtù, abitudini della persona, modi di agire e di pensare stabili, patrimonio in cui la persona si riconosce. Sì, è una famiglia ed è una comunità quella che educa: entrambe necessitano di adulti che siano tali. Ben venga tanto l’indicazione ad accompagnare le famiglie – anche con percorsi di educazione alla genitorialità e alla reciprocità – quanto di porre nuova attenzione per la scuola e l’Università, come pure a fare rete con le diverse istituzioni educative presenti sul territorio creando sinergie e costruendo relazioni che portino a una positiva integrazione di esperienze e di conoscenze.
Tutti questi passaggi, e gli sforzi che ne accompagnano la realizzazione, sono tesi a trasfigurare le persone e le relazioni, interpersonali e sociali. Il messaggio evangelico, se accolto e fatto proprio dalle diverse realtà umane, trasfigura, scardinando le strutture di peccato e di oppressione, facendo sì che l’umanesimo appreso da Cristo diventi concreto e vita delle persone, fino a raggiungere ogni luogo dell’umano, rendendoci compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti. Abbiamo sentito le fatiche di questo processo, legate a un certo attivismo pastorale, all’insufficiente integrazione tra liturgia e vita, alla frammentarietà delle proposte. Sono condizioni che vanno considerate con attenzione, lasciandoci aiutare dalla richiesta di interiorità, di spiritualità e di accompagnamento, di cui ancora una volta proprio i più giovani sono i primi interpreti.

5. Per uno stile sinodale
È significativo pensare che il percorso del Convegno continua nell’imminente Anno Santo di quella Misericordia, che altro non è che il nome dell’amore che Dio ha per noi: amore nella forma della fedeltà assoluta, che genera in noi stabilità, sicurezza e fiducia in qualunque situazione ci troviamo. La misericordia è la via attraverso la quale l’amore del Signore si rivela e raggiunge il mondo ferito, avvolgendolo con tenerezza che consola e rigenerando – qual grembo materno – a nuova vita.
In fondo, è l’amore misericordioso che genera la Chiesa e che ci porta a camminare insieme. L’assunzione di uno stile sinodale – perché giunga ad avviare processi – richiede precisi atteggiamenti, che dicono anzitutto il nostro modo di porci di fronte al volto dell’altro, e indicano nella prospettiva della relazione e dell’incontro la strada di una continua umanizzazione.
Ancora: uno stile sinodale esige anche un metodo, all’insegna della concretezza, del confrontarsi insieme sulle questioni che animano le nostre comunità. Vive di cura per l’ascolto, di pazienza per l’attesa, di apertura per l’accoglienza di posizioni diverse, di disponibilità a lavorare insieme.
Infine, per dare concretezza al discernimento, uno stile sinodale deve sapersi dare obiettivi verso i quali tendere: di qui l’importanza di riprendere in mano l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium.
Con questo spirito facciamo ritorno alle nostre Chiese e ai nostri territori, senza la paura di guardare in faccia la realtà – anche le ombre -, ma con la lieta certezza di chi riconosce, anche nella complessità del nostro tempo, la presenza operosa dello Spirito Santo, la fedeltà di Dio al mondo.
Vorremmo, quindi, che questo nostro salutarci fosse come un abbraccio che dai Pastori si muove affettuoso e grato verso di voi, cari delegati: in voi vediamo il volto delle comunità cristiane disseminate nel nostro amato Paese. Grazie perché ci siete vicini e ci sostenete con la vostra preghiera e partecipazione.
Ma poi l’abbraccio si allarga, e da voi va incontro ai vostri Vescovi e sacerdoti, riconoscendo in noi il segno povero ma vero di Gesù buon Pastore. I nostri limiti vi sono noti, ma conoscete anche la sincerità dei nostri cuori, la dedizione sulle frontiere del quotidiano, il desiderio di servire il popolo cui Dio ci ha inviati. Noi siamo lieti del vostro abbraccio, e nei vostri volti leggiamo simpatia e fiducia, nelle vostre voci sentiamo incoraggiamento e sostegno. Anche noi – come tutti – ne abbiamo bisogno!
Infine, il nostro abbraccio – di Popolo e Pastori – si dilata, quasi a raggiungere e stringere la persona del Successore di Pietro: Francesco è il suo nome. A lui, la Chiesa italiana vuole riaffermare affettuosa vicinanza e operosa dedizione, rispondendo alla particolare attenzione, alla visibile stima, al paterno affetto con cui guida il nostro cammino.
Sì, che l’eco dei nostri cuori giunga fino al suo cuore di universale Pastore, e confermi – a Lui che conferma noi con il carisma di Pietro – ciò che i figli, con linguaggio semplice e diretto, dicono ai loro più cari: “Le vogliamo bene!”.

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