Il
brano evangelico odierno (Lc 9,18-24) è composto di due parti
strettamente collegate tra loro, che possono essere sintetizzate da
due domande: chi è Gesù? Chi è il suo discepolo?
Nella
prima parte Pietro, in risposta a un interrogativo po sto da Gesù,
lo acclama quale «Cristo di Dio», quale Messia. E Gesù, dopo aver
imposto ai Dodici il silenzio su questa identità, precisa
immediatamente quale sia la sua messianicità: quella del «Figlio
dell'uomo che deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani,
dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il
terzo giorno». Su questi versetti la chiesa ci invita a meditare
anche nell'annata B, offrendoci il brano parallelo del vangelo
secondo Marco (Mc 8,27-35: XXIV domenica del tempo ordinario, annata
B) e ricordandoci che, con questo «deve», Gesù non allude a un
destino crudele impostogli da Dio, bensì innanzitutto a una
necessità umana: in un mondo ingiusto il giusto può solo essere
osteggiato fino a essere ucciso se se ne presenta l'occasione (cfr.
Sap 2). Gesù avrebbe potuto passare dalla parte degli ingiusti,
allora l'ostilità verso di lui sarebbe cessata. Ma se egli affronta
questa situazione continuando a vivere come giusto, ossia restando
fedele a Dio, ecco che la necessità umana può anche essere letta
come necessità divina: nel senso che la libera obbedienza alla
volontà di Dio, che chie-de di vivere l'amore fino all'estremo,
esige una vita di amore, anche a costo di una fine ignominiosa.
Ma
il brano odierno ci consente anche di sostare più ap profonditamente
sulle richieste fatte da Gesù a chi vuole seguirlo, ovvero sulle
esigenze che dalla sua particolarissima messianicità discendono per
i suoi discepoli. Gesù - annota Luca - non indirizza il suo sguardo
solo alla sua piccola comunità, ma lo estende a «tutti»; rivolge
delle precise richieste a tutti coloro che vogliono andare dietro a
lui, mettendoli in guardia con chiarezza, anche a costo di
scoraggiarli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». Sono parole a
prima vista dure, che richiedono a noi una comprensione intelligente:
non vanno intese in senso fondamentalista, alla stregua di «un
programma di morte» (Bruno Maggioni) o di una chiamata
all'auto-annientamento, né d'altra parte vanno edulcorate, come se
fossero una semplice metafora.
Rinnegare
se stessi significa smettere di voler affermare se stessi, lottare
contro l'egoismo che sempre ci minaccia, contro quella terribile
malattia che la tradizione cristiana ha definito «amore di sé»:
una brama perseguita a ogni costo, anche contro e senza gli altri;
una preoccupazione esclusiva per sé che induce a considerare il
proprio io come misura della realtà. Chi vince questo egoismo
mortifero cessa di essere ripiegato sui propri interessi e diventa
libero di vivere per gli altri, di generare pensieri, parole e azioni
finalizzate alla comunione fraterna. Allora può anche farsi carico
della propria croce ogni giorno - precisazione solo lucana -, con
faticosa perseveranza. Portare la croce è caricarsi dello strumento
della propria esecuzione, rinunciando a difendersi e ad
autogiustificarsi; è mostrare con la nostra vita quotidiana che
niente e nessuno potrà mai impedirci di vivere il Vangelo, che è
possibile trasformare anche l'ingiusta violenza che si scarica contro
di noi in un'occasione per amare i nostri nemici. In questo stile di
vita c'è chi ci ha preceduti, Gesù Cristo. Si tratta di seguirlo
sempre, ovunque egli vada (cfr. Ap 14,4), certi che egli ha vissuto
il cammino della croce come segno ultimo di una vita piena d'amore:
non bisogna infatti leggere la vita di Gesù a partire dalla croce,
bensì la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, Gesù,
colui che ha trasformato uno strumento di esecuzione capitale nel
luogo della massima gloria!
Queste
tre istanze rimangono valide in tutta la loro radicalità, oggi come
allora, e disegnano un cammino di vita piena e felice. La miglior
interpretazione a esse la fornisce Gesù stesso, commentandole con
quelle parole che costituiscono il vero fulcro della differenza
cristiana: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi
perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Ecco l'intima
verità del Vangelo: perdere la nostra vita per amore di Gesù Cristo
è ciò che può giustificare ogni nostra rinuncia, è la vera
beatitudine possibile già qui e ora. Ma se non comprendiamo questo,
possiamo ancora dirci cristiani?
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