I
vangeli narrano tre resurrezioni compiute da Gesù: quella del figlio
della vedova di Nain (Lc7,11-17), su cui meditiamo oggi, quella della
figlia del capo della sinagoga Giairo (cfr. Lc 8,40-42.49-56) e
quella del suo amico Lazzaro (cfr. Gv 11). L'intento di questi
racconti non è di insistere sull'aspetto miracolistico o prodigioso,
bensì di rivolgere ai lettori - pur con diverse sfumature -
l'annuncio pasquale: Gesù è la vita più forte della morte ed è
venuto per condurre tutti gli uomini alla vita eterna.
Due
cortei ben diversi si incrociano alla porta della città di Nain:
quello di Gesù, seguito dai discepoli e da una folla numerosa
desiderosa di ascoltarlo, e il corteo funebre che accompagna al
sepolcro il figlio unico di una madre vedova. Gesù allora prende
l'iniziativa e decide di trasformare quella che è una coincidenza
casuale in un incontro vero e proprio, in una relazione scelta e
condotta fino alle estreme conseguenze. Tutto nasce nel segreto del
suo cuore, che si lascia ferire dal dolore insopportabile di questa
donna in cui si imbatte: «Vedendola, il Signore fu preso da
viscerale compassione per lei», così dice alla lettera il testo. La
compassione non è una forma di commiserazione, ma è ascolto e
accoglienza dell'altro nella sua sofferenza, capacità di
con-soffrire con chi ci passa accanto e a cui decidiamo di farci
prossimi (cfr. Lc 10,36-37).Gesù però sa bene che il sentimento
della com-passione va manifestato attraverso gesti concreti, perciò
non lo tiene nascosto ma lo esprime apertamente. E lo esprime
innanzitutto osando pronunciare una parola di consolazione rivolta
alla donna, una parola semplice eppure così difficile, visto il
momento: «Non piangere!». Di seguito si avvicina, fa arrestare il
corteo funebre e si spinge fino a dire ciò che è uma namente folle,
inaudito: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Se Elia per resuscitare il
figlio della vedova di Sarepta di Sidone si era disteso per tre volte
sul corpo del bambino e aveva invocato Dio con grande insistenza
(cfr. 1Re 17,17-24), qui a Gesù basta il comando, la parola potente
che esprime l'agire di Dio e trasforma in realtà ciò che dice: «Il
morto si mise seduto e cominciò a parlare».
Poi,
come sempre, Gesù mostra che il suo comportamento non è animato da
alcun protagonismo. Subito compie con risolutezza l'unico gesto da
farsi: riconsegna il figlio alla madre, senza vantare alcun merito o
aggiungere parole inutili. E questo il suo modo per narrare, a chi lo
vuole comprendere, che egli è venuto per donare la salvezza di Dio
agli uomini, ossia quella vita piena di cui la resurrezione di un
morto è certamente il segno più evidente. E la folla, che per una
volta sembra capire il senso profondo di ciò che accade, risale dal
segno visibile al significato nascosto, da Gesù a Dio, colui che lo
ha inviato e in nome del quale egli agisce. Tutti infatti si uniscono
nel rendere gloria a Dio e confessano: «Un grande profeta è sorto
tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». Quest'ultimo verbo va
inteso nel suo senso biblico di farsi vicino per prendersi cura in
modo attivo e partecipe: la lunga storia che era incominciata durante
l'esodo dall'E gitto, quando «Dio aveva visitato i figli di Israele
e aveva visto il loro dolore» (Es 4,31), si compie ora con Gesù. È
lui la presenza definitiva di Dio tra gli uomini, come aveva cantato
profeticamente Zaccaria nel Benedictus: «Benedetto il Signore, Dio
di Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo e ha
suscitato per noi una forza di salvezza nella casa di David suo
servo» (Lc 1,68-69).
Gesù
ha compiuto questo gesto in un punto lontano da noi nel tempo e nello
spazio, e noi non lo vediamo più passare fisicamente in mezzo a noi
facendo il bene (cfr. At 10,38). Nella fede sappiamo però con
certezza che questa resurrezione è per noi il pegno della nostra
resurrezione, della salvezza che conosceremo al di là della morte.
In quel giorno il Signore si accosterà a noi, «asciugherà ogni
lacrima dai nostri occhi» (cfr. Ap 21,4) e ci chiamerà accanto a sé
per una festa senza fine.
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