Se
si parla di lavoro, come la festa del primo maggio spinge a fare, non
si può non ricordare la splendida enciclica Laborem Exercens di
Giovanni Paolo II (del 14 settembre 1981) che rimetteva il lavoro al
centro della vita sociale, considerandolo sì un dovere e un
diritto, ma anche e soprattutto un bene. Solo una rilettura
approfondita e commentata potrà permettere di comprendere come abbia
influito sul pensiero degli economisti e dei politici in tutto il
mondo proprio per la sottolineatura degli aspetti che superano
diritti, problemi e condizioni di lavoro. Ma ci piace proporne
qualche brano che sicuramente può diventare spunto anche di una
riflessione personale.
Nella
Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente
questa verità fondamentale, che l'uomo, creato a immagine di
Dio, mediante
il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore,
ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a
svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle
risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato.
La
coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all'opera di
Dio, deve permeare - come insegna il Concilio - anche «le ordinarie
attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per
procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le
proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla
società, possono
a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l'opera
del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un
contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di
Dio nella storia.
Bisogna
continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le
condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale
nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di
loro, sono
necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del
lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale
solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la
degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei
lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La
Chiesa è vivamente impegnata in questa causa, perché la considera
come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a
Cristo, onde
essere veramente la «Chiesa dei poveri». E
i «poveri» compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi
posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato
della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono
limitate le possibilità del lavoro - cioè per la piaga della
disoccupazione -, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i
diritti che da esso scaturiscono, specialmente
il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del
lavoratore e della sua famiglia.
La
fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell'uomo,
che Egli «creò ... a sua somiglianza, a sua immagine», non è
stata ritrattata né cancellata neppure quando l'uomo, dopo aver
infranto l'originaria alleanza con Dio, udì le parole: «Col sudore
del tuo volto mangerai il pane». Queste parole si riferiscono alla
fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano;
però, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l'uomo
realizza il «dominio», che gli è proprio, sul mondo visibile
«soggiogando» la terra. Questa fatica è un fatto universalmente
conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo
sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni
eccezionalmente gravose. Lo
sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel
coltivare la terra, la quale a volte «produce pruni e spine», ma
anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici
accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri edili
e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita o di
invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco
del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli
uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni
destinate ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli
infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo
sanno le donne,che, talora senza adeguato riconoscimento da parte
della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la
fatica e la responsabilità della casa e dell'educazione dei
figli. Lo
sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è
una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini. Il
lavoro è un bene dell'uomo. Se questo bene comporta il segno di un
«bonum arduum», secondo la terminologia di San Tommaso18, ciò non
toglie che, come tale, esso sia un bene dell'uomo. Ed è non solo un
bene «utile» o «da fruire», ma un
bene «degno», cioè corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene
che esprime questa dignità e la accresce. Volendo
meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere
davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un
bene dell'uomo - è un bene della sua umanità -, perché mediante
il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle
proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in
un certo senso, «diventa più uomo».
Se
il lavoro - nel molteplice senso di questa parola - è un obbligo,
cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di
diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere
esaminati nel vasto contesto dell'insieme dei diritti dell'uomo, che
gli sono connaturali, molti dei quali sono proclamati da varie
istanze internazionali e sempre maggiormente garantiti dai singoli
Stati per i propri cittadini. Il
rispetto di questo vasto insieme di diritti dell'uomo costituisce la
condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo:
per la pace sia all'interno dei singoli Paesi e società, sia
nell'àmbito dei rapporti internazionali,
Gettando
lo sguardo sull'intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non
si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni
immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della
natura rimangono inutilizzate, dall'altra esistono
schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini
di affamati: un
fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all'interno delle
singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano
continentale e mondiale - per quanto concerne l'organizzazione del
lavoro e dell'occupazione - vi è qualcosa che non funziona, e
proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza
sociale.
L'esperienza
conferma che bisogna
adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della
fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di
amore e di affetto per
potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e
religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad
onore della società rendere possibile alla madre - senza ostacolarne
la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza
penalizzazione nei confronti delle sue compagne - di dedicarsi alla
cura e all'educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della
loro età.
Renata
Maderna
Vicedirettore
di Famiglia Cristiana
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