Nel
brano evangelico odierno (Lc 15,1-3.11-32) Gesù annuncia la
misericordia gratuita e preveniente di Dio, forza capace di
convertire le nostre vite. E lo fa con una delle parabole più note,
che i padri della chiesa definivano «il Vangelo nel Vangelo»: la
cosiddetta parabola del «figlio prodigo», meglio definibile come
parabola del «Padre prodigo d'amore».
Il
suddetto brano che la contiene si apre così: «Si avvicinavano a
Gesù tutti i pubblicani e i peccatori. I farisei e gli scribi
mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro".
Allora Gesù disse loro questa parabola...». Gesù spiega la sua
preferenza per la compagnia dei peccatori manifesti, quella che aveva
portato gli «uomini religiosi» ad accusarlo di essere «amico dei
pubblicani e dei peccatori» (Lc 7,34). Essi, così ciechi da non
riconoscersi peccatori, non capivano che Gesù era «venuto a cercare
e a salvare ciò che è perduto» (cfr. Lc 19,10): chi più di un
peccatore pubblicamente riconosciuto, additato come «perduto», può
desiderare di cambiare? Egli è il segno manifesto della condizione
di ciascuno di noi: Dio attende solo che ci riconosciamo pec catori e
accettiamo che egli ricopra le nostre cadute con la sua inesauribile
misericordia. È quanto Gesù afferma a conclusione delle due piccole
parabole che precedono la nostra: «Vi è più gioia in cielo per un
solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti i quali
non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).
«Un
uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre,
dammi la parte di patrimonio che mi spetta". E il padre divise
tra loro le sue sostanze». Chiedendo al padre la propria parte di
eredità è come se il figlio lo dichiarasse morto; ma il padre
acconsente, lascia che il figlio calpesti il suo amore. E così il
figlio «parte per un paese lontano, dove sperpera le sue sostanze
vivendo in modo insensato». La via imboccata si rivela mortifera, e
ben presto, trovandosi nel bisogno, egli si vede costretto a
pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).
«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci;
ma nessuno gliene dava»: potrebbe prenderne da solo, ma ciò che gli
manca è qualcuno che condivida il cibo con lui, che glielo doni in
una relazione d'amore. Allora «rientra in se stesso»: non si tratta
di un moto di conversione, ma della presa di coscienza della sua
condizione penosa. Il giovane pensa: «Mi alzerò, andrò da mio
padre e gli dirò: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro
di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami
come uno dei tuoi salariati"». Nessun pentimento lo muove, ma
solo una valutazione opportunistica di ciò che è più conveniente.
Egli continua a ragionare in una logica di giustizia retributiva:
davvero non conosce il cuore del padre.
E
qui la parabola arriva al suo apice: «Partì e si incamminò verso
suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Poi il padre
ordina ai servi di rivestirlo con l'abito più bello, di mettergli
l'anello al dito, i calzari ai piedi e di ammazzare il vitello
grasso: deve cominciare una grande festa, perché - egli dice -
«questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è
stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il
figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è
in questo momento che egli comprende che il padre non solo l'ha
sempre atteso, ma lo ha amato mentre egli lo odiava, «quando era
ancora lontano». Ecco la rivelazione sconvolgente, sintetizzata in
quell'abbraccio pieno di amore che lo converte: Dio non ama il
peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi
siamo suoi nemici (cfr. Rm 5,6-10).
La
parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la
reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto
l'altro di comprendere l'amore del padre. Egli è rimasto a casa,
vivendo da schiavo, non da figlio (cfr. Gv 8,35); solo per paura non
ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non si
capacita che il padre pos sa fare festa per suo fratello: e così
esce allo scoperto, rivelando la vera immagine del padre-padrone che
abita il suo cuore nonché il disprezzo verso il fratello («questo
tuo figlio»). Pure a lui il padre esce incontro, pregandolo di
entrare alla festa: «Bisogna fare festa e rallegrarsi, perché
que sto tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed
è stato ritrovato».
Sì,
l'atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra
risposta alla misericordia del Padre, rivelatasi definitivamente in
Gesù Cristo, l'unica forza realmente in grado di convertirci. Questa
infatti è la conversione: credere all'amore di Dio per noi (cfr. 1
Gv 4,16) e accogliere con un cuore libero la sua inesauribile
misericordia. Solo così potremo usare a nostra volta misericordia
verso gli altri uomini, tutti nostri fratelli.
Don
Piero e Santis
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