sabato 30 gennaio 2016

IL VERBO DI DIO: Liturgia della Parola di Domenica 31 gennaio





Prima lettura (Ger 1,4-5.17-19)
 
Ti ho stabilito profeta delle nazioni.


Dal libro del profeta Geremìa

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te
come una città fortificata,
una colonna di ferro
e un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».

Parola di Dio




Seconda lettura (1Cor 12,31-13,13)

Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità.



Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Parola di Dio.





Vangelo (Lc 4,21-30)


Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei.


+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Parola del Signore


IV DOMENICA DEL TEMPO ORDIONARIO

Nella quarta domenica del tempo ordinario, il brano del Vangelo di Luca (4,21-30) porta a termine l'episodio dell'andata di Gesù a Nazaret nella sinagoga, in giorno di sabato, con il seguito drammatico della scena: il tentativo di ucciderlo, gettandolo «giù dal precipizio» su cui si affacciava la ridente cittadina galilea. 
Dalla narrazione si evince chiaramente come l’evangelista, fin dal principio, intende adombrare quella che sarà la sorte futura del Messia: pur essendo mandato dal Padre, «nella forza dello Spirito», per attuare una missione di salvezza e di « liberazione » per i più poveri e gli oppressi e «per predicare un anno di grazia del Signore» (4,18-19), egli sarà respinto pro prio da coloro ai quali era principalmente mandato. 
Aveva rivendicato per sé una missione «profetica», at tribuendosi il passo di Isaia: allora dovrà anche pagare lo scotto che ogni «profeta» ha da pagare agli uomini, i quali avvertono sempre in lui un personaggio «sco modo», che viene a svegliarli dal loro quieto vivere, a proporre la fatica del «nuovo», a cambiare orienta mento per nuove mete e nuovo cammino.
Il «profeta», quando è vero, apre sempre gli oriz zonti di un mondo diverso: ognuno, per entrarci, deve diventare diverso, deve ricominciare da capo. Di qui la reazione, dapprima sorda e poi anche violenta: elimi nando il profeta o riducendolo al silenzio, si pensa di far tacere anche la propria coscienza che, al confronto con le sue parole, cominciava a risvegliarsi o a «pro blematizzarsi».
Gesù queste cose le sapeva benissimo dalla storia dei Profeti dell'Antico Testamento - di cui un esempio stu pendo è quello di Geremia, presentatoci dalla prima lettura della Liturgia odierna (Ger 1,4-5.17-19) - oltre che dalla coscienza sovrana che egli aveva di se stesso. Sintomatica la sua risposta a chi un giorno lo pregava di «fuggire» perché Erode cercava di ucciderlo, men tre egli era in quel lungo viaggio verso Gerusalemme che non finisce mai: «Andate a dire a quella volpe... È necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,32-33). È evidente il riferimento alla sua futura morte di cro ce, che avrebbe subito in quanto profeta.
Qui S. Luca ce ne riferisce come un anticipo, che per il momento non riuscì perché «non era ancora giun ta la sua ora», direbbe Giovanni (cfr. 2,4). «Al l'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò » (vv. 28-30). È grandiosa questa serenità di Cristo davanti all'affanna to agitarsi dei suoi nemici, questa sua «signoria» sul le forze stesse dell'odio e della morte! Cristo è «Signo re» anche prima della sua risurrezione: qui abbiamo un chiaro gesto del «dominio» di Gesù sulla «morte», ancor prima che avvenga.
Ma vediamo più in concreto come sia nata questa avversione mortale dei suoi concittadini contro Gesù.
Prima di tutto, ci deve essere stato un certo senso di invidia nel veder emergere a livelli troppo alti uno che, fino a poco tempo prima, era come tutti gli altri. Il commento che fanno: «Non è costui il figlio di Giu seppe?» (v. 22), ci orienta in questo senso. Non si com ponevano bene ai loro occhi due realtà apparentemen te troppo lontane: le sue origini umane comuni, addi rittura più umili di altri, e la sua dichiarata «pretesa» di essere colui nel quale «si era adempiuta la Scrittu ra» di Isaia sul misterioso «inviato» del Signore (v. 21).
Al di là della pur comprensibile invidia paesana, pe rò, è il «disagi » che Gesù impone a tutti quelli che lo avvicinano (ora i suoi concittadini, domani i suoi Apostoli, dopo domani noi e gli uomini di tutti i tem pi!) e che colgono in lui dimensioni contrastanti: l'uo mo più trito, quello di ogni giorno («figlio di Giusep pe »!), e «il più che umano» che appare dalla sua vita, dalla sua dottrina, dai suoi miracoli. È questo «miste ro» di Gesù che sconvolge e sconvolgerà sempre gli uomini.
Nel corrispondente racconto di Marco tutto questo è descritto in forma anche più vivace: «Venuto il sa bato a Nazaret, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: "Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?". E si scandalizzavano di lui» (Mc 6,2-3). Davanti a Gesù, che va al di là della misura comoda per tutti, la gente «si scandalizza», non cerca di andare oltre per tenta re di decifrare o, comunque, di scalfire il mistero! Di venta «incapace» di «credere», intendendo qui la «fe de» come esigenza di «protendersi» oltre il palpabi le e il percettibile, verso certi orizzonti che pur nell'agire di Gesù sembrano almeno baluginare. Gesù stes so, infatti, si meraviglia davanti a tale atteggiamento: «E si meravigliava della loro incredulità » (Mc 6,6).
Nel racconto di Luca il motivo della ostilità nei ri guardi di Gesù sembra essere anche più sottile! Esso nascerebbe da una specie di «accaparramento» che si vorrebbe fare di lui per motivi campanilistici: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stes so. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fal lo anche qui nella tua patria!» (v. 23). Si lamentano che abbia scelto Cafarnao per compiere i suoi prodigi, invece che Nazaret: quasi che il miracolo fosse un ge sto propagandistico o di reclamizzazione turistica! E non invece un gesto sovranamente «libero» di Dio, che lo fa dove vuole e per chi vuole, offerto come « se gno » da leggere e da interpretare a chi ha già fede o almeno una «disponibilità » a credere.
Proprio per questa indisponibilità dei «suoi» a cre dere, Dio ha scelto di compiere i suoi prodigi, già nel l'Antico Testamento, al di fuori della stessa Palestina: «Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anzi: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quan do il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova di Zarepta in Si done. C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro » (vv. 24-27). Se noi andassimo a rileg gere gli episodi qui richiamati, vedremmo di quanta fe de dettero prova la vedova di Zarepta (1 Re, capp. 17 e 18) e il generale Naaman il Siro (2 Re, cap. 5) al tempo dei due grandi profeti taumaturghi.
La «fede» allarga e dilata i confini della presenza e dell'azione di Dio: i cittadini di Nazaret, che volevano confinare Gesù a compiere miracoli per loro uso e pre stigio, non solo erano chiusi in un ottuso provinciali smo, in contrasto con i disegni universalistici di Dio, ma soprattutto erano incapaci di aprirsi alla fede, che è la esaltazione del « nuovo » e dell'imprevedibile di Dio.
Frustrati in questo, incapaci di aprirsi al «nuovo» universale, annunciato dal «profeta» che «era stato allevato» (v. 16) nella loro città, gli diventano ostili, lo respingono, addirittura tentano di ucciderlo. 
Il profeta, abbiamo detto, è sempre «scomodo», perché mette gli uomini davanti alle esigenze sempre nuove e implacabili di Dio. Un modo per disfarsene è quello violento, come quello usato allora dai Nazaretani e più tardi dagli Ebrei nei riguardi di Gesù: un al tro modo potrebbe essere quello di «chiudere» le orec chie per non ascoltarlo. È quanto è accaduto a moltis simi profeti dell'Antico Testamento: «Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: "Dice il Signore Dio: Ascoltino o non ascoltino... sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro"» (Ez 2,4-5; cfr. Is 6).
La tattica del rifiuto varia secondo i tempi, o le cir costanze, o l'educazione sociale! Ma il profeta vero è sempre un « emarginato » religioso e sociale.
Proprio per questo egli ha bisogno di una particola re « forza » di Dio, per non scoraggiarsi nella sua mis sione. Un esempio di tutto ciò lo abbiamo in Geremia, psicologicamente fragile e incerto, chiamato da Dio a un compito che lo atterrisce, tanto che inizialmente e anche successivamente tenta di sottrarvisi. Ma Dio lo incalza e lo rianima, dichiarandogli solennemente di stargli al fianco: «Tu, dunque, cingiti i fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro. Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giu da e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti » (Ger 1,17-19).
Solo contro tutti: anche quelli che gli avrebbero do vuto essere più vicini come i «capi» del popolo, o i « sacerdoti ». È quello che capitò a Gesù nell'incontro di Nazaret e, più spaventosamente ancora, sulla Croce!
Qualcosa che induce tutti noi a riflettere, per un dop pio motivo: il primo riguarda il nostro atteggiamento in rapporto a Cristo, il «profeta» di sempre. Egli non è un profeta scomodo per alcuni soltanto, ma per tutti « specialmente per i suoi». C'è da domandarsi se noi almeno ci lasciamo provocare dalle sue « profezie », la sciandoci trasformare, o gli poniamo certe condizioni, come tentarono di fare i concittadini di Nazaret, an che senza ricorrere alle forme dell'ostracismo violento.
Il secondo motivo riguarda il nostro atteggiamento verso gli altri, presso i quali dobbiamo essere i porta tori del messaggio «profetico» di rinnovamento e di trasformazione annunciatoci da Cristo. Abbiamo la for za di ergerci «come muro di bronzo contro il paese», come Dio ricorda a Geremia (1,18), non contando natu ralmente sulle nostre forze, ma sulla «potenza» della verità e sull'aiuto che viene da Dio? E oggi pare sia arri vato il tempo in cui i cristiani, come singoli e come Chiesa, debbono ritrovare il coraggio delle origini per proclamare al mondo che solo le «minoranze» che cre dono e amano hanno l'avvenire nelle loro mani.
Bisogna avere la forza « profetica » dello Spirito per riaffermare la modernità e la basilarità di certi valori che oggi rischiano tragicamente di oscurarsi nella co scienza dei più: si pensi al diritto alla vita del nascitu ro, conculcata dalla legge, alla dissacrazione del matri monio, alla pornografia, alla violenza generalizzata, alla ricerca spasmodica del piacere e del denaro.
Rimane però sempre vero che la testimonianza « pro fetica» più forte è quella dell'amore, come ci ricorda S. Paolo nel sublime elogio della «carità» (1 Cor 12,31-13,13), il «cari sma» più grande di tutti e che non deve mancare a nessun credente: « Se anche parlassi le lingue degli uo mini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la cari tà, non sono nulla... Queste dunque le tre cose che ri mangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità».

      Don Piero De Santis

GRADINI DI SANTITA'



La liturgia della Parola, in questa quarta domenica del Tempo Ordinario, ci porta a meditare sulla funzione profetica di Gesù e sulla nostra.
Gesù, come attestano i Vangeli, è ritenuto un profeta delle folle e lo è nel senso pieno del termine perché è la Parola di Dio in persona presente nel mondo.
Il Concilio Vaticano II, ha voluto mettere in evidenza la partecipazione di tutti i membri della Chiesa, senza eccezione, alla funzione profetica di Gesù Cristo  divenendo così annunciatori della Parola di Salvezza.
Oggi la nostra attenzione si sofferma su un grande padre della Chiesa: San Girolamo.
Egli ha posto al centro della sua vita la Parola di Dio impegnandosi a viverla concretamente nella sua lunga vita terrena nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
E' stato presbitero, monaco, scrittore ed è famoso per la Vulgata, la prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia da cui sono state tradotte quelle successive.
E' noto per questa sua affermazione: "Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est”  (Non conoscere la Scrittura equivale a non conoscere Gesù Cristo).
Invochiamo, perciò, lo Spirito Santo affinché guarisca i nostri cuori per tutte quelle volte in cui la Parola di Dio è stata offuscata da altre voci, proclamata ma non accolta, meditata ma non amata, pregata ma non custodita, contemplata ma non realizzata.
L'intercessione di Maria e di san Girolamo ci aiutino a crescere nell'amore verso la Parola di Dio per  saperla annunciare ai fratelli dando così un senso pieno alla nostra vita.

SETTIMANA IN PARROCCHIA: Appuntamenti dal 1° al 7 febbraio 2016

Lunedì
1 Febbraio

Ore 19.30: Prove del coro parrocchiale.

Ore 19.30: nella Chiesa di S. Teresa, Lectio divina. Segue l'Adorazione eucaristica fino alle ore 21.00.
Martedì
2 Febbraio

Festa della Presentazione del Signore

Ore 17.30: ritrovo presso la Chiesa di San Giuseppe per la liturgia stazionale.
Ore 18.00: benedizione delle candele e processione verso la Basilica Cattedrale dove si celebrerà la S. Messa.

Ore 19.30: Incontro con i priori e i referenti del Movimento Giovanile delle Confraternite e Associazioni.
Mercoledì
3 Febbraio

Ore 19.30: Prove del coro parrocchiale.

Ore 19.30: Incontro con i Ministri straordinari dell'Eucaristia.
Giovedì
4 Febbraio

Ore 19.30: Prove del coro parrocchiale.

Dopo la S. Messa vespertina si snoderà per le vie del centro storico la processione con il simulacro di Sant'Agata e San Sebastiano.
Venerdì
5 Febbraio

Solennità di Sant'Agata

Primo Venerdì
del Mese
Le SS. Messe avranno il seguente orario: 7.00 - 9.00 - 11.00 - 18.30.

Dalle ore 8.30 fino alle ore 12.00, Adorazione eucaristica presso il Monastero di S. Teresa.

La S. Messa delle ore 18.30 sarà presieduta da S. Ecc.za Mons. Luigi Renna, Vescovo di Cerignola - Ascoli Satriano.

Sabato
6 Febbraio


Ore 19.00: festa di carnevale per i ragazzi del Catechismo.

Domenica
7 Febbraio

Le SS. Messe avranno il seguente orario:

ore 7.00: S. Francesco d'Assisi.
ore 8.00: Monastero di S. Teresa.
ore 10.00: Basilica Cattedrale di S. Agata.
ore 17.30: S. Francesco d'Assisi.
ore 18.30: Basilica Cattedrale di S. Agata.

sabato 23 gennaio 2016

IL VERBO DI DIO: Liturgia della Parola della Domenica

PRIMA LETTURA (Ne 8,2-4.5-6.8-10)

Leggevano il libro della legge e ne spiegavano il senso.

Dal libro di Neemìa

In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».

Parola di Dio



SECONDA LETTURA (1Cor 12,12-30)

Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

Parola di Dio


VANGELO (Lc 1,1-4; 4,14-21)

Oggi si è compiuta questa Scrittura.

+ Dal Vangelo secondo Luca

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».


Parola del Signore

TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il brano di Vangelo (Lc 1,1-4;4,14-21), che la liturgia della terza domenica del tempo ordinario ci offre, consta di due parti: la prima ci riporta l'elegante pro logo che Luca premette al suo Vangelo e in cui spiega le ragioni per cui si è deciso a scriverlo (1,1-4); la seconda, invece, ci descrive il ritorno di Gesù a Naza ret, dopo le tentazioni nel deserto, all'inizio della sua vita pubblica (4,14-21).
Il brano liturgico non ci fa leggere oggi il seguito drammatico di quell'incontro di Gesù con i suoi concit tadini, che termina con un non riuscito tentativo di assassinio: «Al sentire queste cose tutti nella sinagoga furono presi da un grande sdegno e, alzatisi, lo caccia rono fuori dalla città e lo condussero fino a un dirupo della collina sulla quale la loro città era situata per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (vv. 28-30). Lo scopo della Liturgia, infatti,  è quello di mettere in evidenza la «nor matività» della Parola e la sua « potenza » di trasfor mazione e di invito alla «decisione»: per questo è stato omesso il seguito del racconto.
Fermandoci a questa prospettiva, vediamo che cosa può insegnare l'odierno brano evangelico.
Incominciamo dal « prologo » del Vangelo di Luca, dove l'Evangelista ci introduce nel cuore del mistero della «Parola» (vv. 3-4) come realtà «viva», che si trasmette di generazione in generazione, per creare la comunità dei credenti: Teofilo, a cui viene dedicato il terzo Vangelo e del quale non sappiamo nulla, può es sere il simbolo di tutti noi che non abbiamo presenziato agli « avvenimenti » salvifici «successi» tanto tempo fa (v. 1), e che, pur tuttavia «riecheggiati» fino ad oggi - tale è il significato del verbo greco, qui tradotto con «hai ricevuto» (v. 4) - procurano anche a noi la salvezza.
Proprio per questo, la prima preoccupazione di Luca nello stendere il suo Vangelo è stata quella della «fe deltà»: «Ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scrivere per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto » (v.v. 3-4).
Non salva un messaggio accomodato o, in qualsiasi maniera, manipolato. S. Luca ha la possibilità di tra smettercelo in maniera fedele perché può attingere sia a fonti scritte (v. 11), sia a fonti orali: «Come ce l’hanno trasmesso coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola» (v. 2). Per questa catena di ininterrotta «testimonianza», che va da quella oculare a quella parlata e infine a quella scritta, noi possiamo arrivare al cuore stesso degli « av venimenti » salvifici e saggiarne, anche sul piano della validità storica, la «solidità»: la nostra fede, come quella di Teofilo, per essere ragionevole, ha bisogno di essere fondata su «solide» basi! S. Luca ci assicura che il suo Vangelo - ciò che, del resto, vale anche per gli altri - ha questa «solidità» di informazione, con giunta a una assoluta «fedeltà» di interpretazione.
Il che non significa che tutto questo sia capace di fare nascere la fede nel cuore degli uomini, come sta a dimostrarlo l'atteggiamento dei concittadini di Na zaret di fronte a Gesù, di cui pur «ammirano» le pa role di grazia «che uscivano dalla sua bocca» (v. 22). La fede sta nel cogliere «il di più» che c'è in Cristo, oltre il fatto che tutti potevano facilmente avvertire, che cioè egli fosse «il figlio di Giuseppe», come si cre deva (v. 22). È a questo «di più» della fede che i Van geli vogliono condurre i lettori con il loro racconto e la loro interpretazione dei fatti.
È quanto si può ricavare dall'episodio di Gesù che, «ritornato in Galilea con la potenza dello Spirito Santo, ... si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato, nella sinagoga e si alzò a leggere» (vv. 14.16). Gesù si avvale di un diritto riconosciuto ad ogni Ebreo maschio, adulto: quello di fare la lettura di un brano della Scrittura. La sua fama, poi, di maestro itinerante gli permette di tenere anche la successiva spiegazione del testo, senza incontrare nes suna difficoltà da parte del presidente della sinagoga.
Il testo che Gesù lesse in quella occasione, è ripreso da un noto brano di Isaia (61,1-2) e che Luca riporta nei seguenti termini: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messag gio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai cie chi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e pre dicare un anno di grazia del Signore».
Fin qui niente di strano, salvo la gioia e la speranza che dovevano ribollire nel cuore di ogni Ebreo nel sentirsi ridire quelle antiche promesse di liberazione e di salvezza, che il lontano Profeta aveva proclamato per gli Ebrei del suo tempo, di ritorno dall'esilio. Lo strano avviene quando Gesù, terminata la lettura e riconse gnato il rotolo all'inserviente, si mette a sedere e, sotto gli occhi strabiliati di tutti, ne fa la spiegazione dicen do: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (vv. 20-21).
È la spiegazione che sconvolge gli uditori, che di fatto reagiscono tentando di ucciderlo. Le parole di Gesù, infatti, affermano due cose che sono di una por tata apparentemente assurda e incredibile: la prima è che quelle parole del Profeta Isaia, che parlano di un misterioso personaggio investito dallo «Spirito del Si gnore» per operare la salvezza del popolo, « si adem piono » proprio in lui, il figlio di Maria o, come la gente subito dopo dirà per dispregiarlo, «il figlio di Giuseppe» (v. 22). La seconda è che l'opera del Messia, descritta in quei due versetti dal Profeta, ha inizio già da quel momento: «oggi». Qualcosa dunque che inizia «subito», immediatamente, a condizione però di ac cettare Gesù di Nazaret come il realizzatore del mes saggio profetico. Le due cose, a cui abbiamo fatto rife rimento, si richiamano a vicenda.
«Gesù opera con la parola e con gli atti, con l'inse gnamento e con la salvezza. Il tempo della grazia è sorto per i poveri, per i prigionieri e per gli oppressi.
Il Gesù del Vangelo lucano è proprio il Redentore di questi oppressi. Il grande dono portato da Gesù è la libertà: libertà dalla cecità fisica e spirituale, libertà dalla povertà e dalla schiavitù, libertà dal peccato. Finché Gesù rimane sulla terra, dura « l'anno di grazia del Signore ». A esso hanno guardato gli uomini prima di Gesù, a esso riguarda la Chiesa. È il centro della storia, la più grande delle grandi opere di Dio. Nella gioia e nello splendore di quest'anno acquista il suo vero significato ciò che Isaia aveva pure profetizzato: «A promulgare per il Signore un anno di grazia, un giorno di rivincita per il nostro Dio» (Is 61,2). Il Mes sia è anzitutto il donatore della salvezza che illumina tutti, e non il giudice che condanna»
Tale atteggiamento di fronte a Gesù di Nazaret, accettato come unico realizzatore della «liberazione» integrale dell'uomo, è possibile solo in una dimensione di fede: i suoi concittadini non presero sul serio «il figlio di Maria». Sembrava loro troppo insignificante, per operare cose sì grandi! Volevano separare il pro gramma di liberazione, che pur accettavano interior mente, dal Liberatore: l'insidia in cui cadono non po chi cristiani anche oggi.
Per chi crede però davvero in Gesù di Nazaret come Messia, rimane « normativa » non solo la parola profetica, ma soprattutto l'affermazione di Cristo di quel lontano sabato, nella sinagoga di Nazaret: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi». Un «oggi» che ricomincia da capo ogni giorno.

     Don Piero De Santis

GRADINI DI SANTITA'


In questa domenica siamo chiamati a riflettere sull'importanza della Parola di Dio che non è lettera morta ma ha un senso per noi qui ed oggi in quanto è Dio stesso che ci parla e ci indica la via da seguire.
Le letture odierne ci aiutano a scoprire e a riconoscere i diversi carismi presenti nella comunità e invitano ciascuno di noia a metterli a frutto per il bene dei fratelli.
All'inizio dell'Anno Santo della Misericordia siamo invitati a formare, malgrado le nostre diversità, un solo popolo e un solo corpo: quello di CRISTO.
In questa domenica ci viene in aiuto un abate cistercense inglese di primaria importanza vissuto tra il 1110 e il 1167 : AELREDO DI RIEVAULX.
Scrisse numerosi testi di spiritualità fra i quali ricordiamo:"Lo specchio della carità", "L'amicizia spirituale","Gesù a dodici anni" e le Omelie.

Oggi proponiamo alla nostra riflessione l'omelia 26 sul profeta Isaia.

Veramente, fratelli miei, quando il turbamento interiore o le angustie ci abbattono, troviamo nelle Sante Scritture la consolazione di cui abbiamo bisogno. «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Rm 15,4). Ve l'assicuro: non può sopraggiungere alcuna contrarietà, alcuna tristezza, alcuna amarezza che, dal momento in cui si apre a noi il testo sacro, non svanisca presto o non sia resa sopportabile. Si tratta del campo ove Isacco si reca al tramonto per meditare; e Rebecca, venuta a incontrarlo calma con la sua dolcezza il dolore che lo aveva afferrato (Gen 24,84).

Quante volte, o Gesù, il giorno declina e viene la notte! Quante volte tutto mi è amaro e tutto quel che vedo mi diventa un peso ! Se qualcuno parla, lo ascolto con pena, II mio cuore si è indurito come una pietra. Che fare in momenti simili? Esco per meditare in campagna, apro il libro sacro, leggo e imprimo in questa cera i miei pensieri. Ed ecco che Rebecca - cioè la tua grazia, Signore - viene subito verso di me, con la sua luce dissipa le mie tenebre, scaccia il dolore, spezza la mia durezza. Come sono da compiangere coloro che, afflitti dalla tristezza, non entrano in questo campo onde trovarvi la gioia!

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA XLIX GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI


Comunicare la famiglia:
ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore


Il tema della famiglia è al centro di un’approfondita riflessione ecclesiale e di un processo sinodale che prevede due Sinodi, uno straordinario – appena celebrato – ed uno ordinario, convocato per il prossimo ottobre. In tale contesto, ho ritenuto opportuno che il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali avesse come punto di riferimento la famiglia. La famiglia è del resto il primo luogo dove impariamo a comunicare. Tornare a questo momento originario ci può aiutare sia a rendere la comunicazione più autentica e umana, sia a guardare la famiglia da un nuovo punto di vista.

Possiamo lasciarci ispirare dall’icona evangelica della visita di Maria ad Elisabetta (Lc 1,39-56). «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”» (vv. 41-42).

Anzitutto, questo episodio ci mostra la comunicazione come un dialogo che si intreccia con il linguaggio del corpo. La prima risposta al saluto di Maria la dà infatti il bambino, sussultando gioiosamente nel grembo di Elisabetta. Esultare per la gioia dell’incontro è in un certo senso l’archetipo e il simbolo di ogni altra comunicazione, che impariamo ancora prima di venire al mondo. Il grembo che ci ospita è la prima “scuola” di comunicazione, fatta di ascolto e di contatto corporeo, dove cominciamo a familiarizzare col mondo esterno in un ambiente protetto e al suono rassicurante del battito del cuore della mamma. Questo incontro tra due esseri insieme così intimi e ancora così estranei l’uno all’altra, un incontro pieno di promesse, è la nostra prima esperienza di comunicazione. Ed è un'esperienza che ci accomuna tutti, perché ciascuno di noi è nato da una madre.

Anche dopo essere venuti al mondo restiamo in un certo senso in un “grembo”, che è la famiglia. Un grembo fatto di persone diverse, in relazione: la famiglia è il «luogo dove si impara a convivere nella differenza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). Differenze di generi e di generazioni, che comunicano prima di tutto perché si accolgono a vicenda, perché tra loro esiste un vincolo. E più largo è il ventaglio di queste relazioni, più sono diverse le età, e più ricco è il nostro ambiente di vita. È il legame che sta a fondamento della parola, che a sua volta rinsalda il legame. Le parole non le inventiamo: le possiamo usare perché le abbiamo ricevute. E’ in famiglia che si impara a parlare nella “lingua materna”, cioè la lingua dei nostri antenati (cfr 2 Mac 7,25.27). In famiglia si percepisce che altri ci hanno preceduto, ci hanno messo nella condizione di esistere e di potere a nostra volta generare vita e fare qualcosa di buono e di bello. Possiamo dare perché abbiamo ricevuto, e questo circuito virtuoso sta al cuore della capacità della famiglia di comunicarsi e di comunicare; e, più in generale, è il paradigma di ogni comunicazione.

L’esperienza del legame che ci “precede” fa sì che la famiglia sia anche il contesto in cui si trasmette quella forma fondamentale di comunicazione che è la preghiera. Quando la mamma e il papà fanno addormentare i loro bambini appena nati, molto spesso li affidano a Dio, perché vegli su di essi; e quando sono un po’ più grandi recitano insieme con loro semplici preghiere, ricordando con affetto anche altre persone, i nonni, altri parenti, i malati e i sofferenti, tutti coloro che hanno più bisogno dell’aiuto di Dio. Così, in famiglia, la maggior parte di noi ha imparato la dimensione religiosa della comunicazione, che nel cristianesimo è tutta impregnata di amore, l’amore di Dio che si dona a noi e che noi offriamo agli altri.

Nella famiglia è soprattutto la capacità di abbracciarsi, sostenersi, accompagnarsi, decifrare gli sguardi e i silenzi, ridere e piangere insieme, tra persone che non si sono scelte e tuttavia sono così importanti l’una per l’altra, a farci capire che cosa è veramente la comunicazione come scoperta e costruzione di prossimità. Ridurre le distanze, venendosi incontro a vicenda e accogliendosi, è motivo di gratitudine e gioia: dal saluto di Maria e dal sussulto del bambino scaturisce la benedizione di Elisabetta, a cui segue il bellissimo cantico del Magnificat, nel quale Maria loda il disegno d’amore di Dio su di lei e sul suo popolo. Da un “sì” pronunciato con fede scaturiscono conseguenze che vanno ben oltre noi stessi e si espandono nel mondo. “Visitare” comporta aprire le porte, non rinchiudersi nei propri appartamenti, uscire, andare verso l’altro. Anche la famiglia è viva se respira aprendosi oltre sé stessa, e le famiglie che fanno questo possono comunicare il loro messaggio di vita e di comunione, possono dare conforto e speranza alle famiglie più ferite, e far crescere la Chiesa stessa, che è famiglia di famiglie.

La famiglia è più di ogni altro il luogo in cui, vivendo insieme nella quotidianità, si sperimentano i limiti propri e altrui, i piccoli e grandi problemi della coesistenza, dell’andare d’accordo. Non esiste la famiglia perfetta, ma non bisogna avere paura dell’imperfezione, della fragilità, nemmeno dei conflitti; bisogna imparare ad affrontarli in maniera costruttiva. Per questo la famiglia in cui, con i propri limiti e peccati, ci si vuole bene, diventa una scuola di perdono. Il perdono è una dinamica di comunicazione, una comunicazione che si logora, che si spezza e che, attraverso il pentimento espresso e accolto, si può riannodare e far crescere. Un bambino che in famiglia impara ad ascoltare gli altri, a parlare in modo rispettoso, esprimendo il proprio punto di vista senza negare quello altrui, sarà nella società un costruttore di dialogo e di riconciliazione.

A proposito di limiti e comunicazione, hanno tanto da insegnarci le famiglie con figli segnati da una o più disabilità. Il deficit motorio, sensoriale o intellettivo è sempre una tentazione a chiudersi; ma può diventare, grazie all’amore dei genitori, dei fratelli e di altre persone amiche, uno stimolo ad aprirsi, a condividere, a comunicare in modo inclusivo; e può aiutare la scuola, la parrocchia, le associazioni a diventare più accoglienti verso tutti, a non escludere nessuno.

In un mondo, poi, dove così spesso si maledice, si parla male, si semina zizzania, si inquina con le chiacchiere il nostro ambiente umano, la famiglia può essere una scuola di comunicazione come benedizione. E questo anche là dove sembra prevalere l’inevitabilità dell’odio e della violenza, quando le famiglie sono separate tra loro da muri di pietra o dai muri non meno impenetrabili del pregiudizio e del risentimento, quando sembrano esserci buone ragioni per dire “adesso basta”; in realtà, benedire anziché maledire, visitare anziché respingere, accogliere anziché combattere è l’unico modo per spezzare la spirale del male, per testimoniare che il bene è sempre possibile, per educare i figli alla fratellanza.

Oggi i media più moderni, che soprattutto per i più giovani sono ormai irrinunciabili, possono sia ostacolare che aiutare la comunicazione in famiglia e tra famiglie. La possono ostacolare se diventano un modo di sottrarsi all’ascolto, di isolarsi dalla compresenza fisica, con la saturazione di ogni momento di silenzio e di attesa disimparando che «il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto» (Benedetto XVI, Messaggio per la 46ª G.M. delle Comunicazioni Sociali, 24.1.2012). La possono favorire se aiutano a raccontare e condividere, a restare in contatto con i lontani, a ringraziare e chiedere perdono, a rendere sempre di nuovo possibile l’incontro. Riscoprendo quotidianamente questo centro vitale che è l’incontro, questo “inizio vivo”, noi sapremo orientare il nostro rapporto con le tecnologie, invece che farci guidare da esse. Anche in questo campo, i genitori sono i primi educatori. Ma non vanno lasciati soli; la comunità cristiana è chiamata ad affiancarli perché sappiano insegnare ai figli a vivere nell’ambiente comunicativo secondo i criteri della dignità della persona umana e del bene comune.

La sfida che oggi ci si presenta è, dunque, reimparare a raccontare, non semplicemente a produrre e consumare informazione. E’ questa la direzione verso cui ci spingono i potenti e preziosi mezzi della comunicazione contemporanea. L’informazione è importante ma non basta, perché troppo spesso semplifica, contrappone le differenze e le visioni diverse sollecitando a schierarsi per l’una o l’altra, anziché favorire uno sguardo d’insieme.

Anche la famiglia, in conclusione, non è un oggetto sul quale si comunicano delle opinioni o un terreno sul quale combattere battaglie ideologiche, ma un ambiente in cui si impara a comunicare nella prossimità e un soggetto che comunica, una “comunità comunicante”. Una comunità che sa accompagnare, festeggiare e fruttificare. In questo senso è possibile ripristinare uno sguardo capace di riconoscere che la famiglia continua ad essere una grande risorsa, e non solo un problema o un’istituzione in crisi. I media tendono a volte a presentare la famiglia come se fosse un modello astratto da accettare o rifiutare, da difendere o attaccare, invece che una realtà concreta da vivere; o come se fosse un’ideologia di qualcuno contro qualcun altro, invece che il luogo dove tutti impariamo che cosa significa comunicare nell’amore ricevuto e donato. Raccontare significa invece comprendere che le nostre vite sono intrecciate in una trama unitaria, che le voci sono molteplici e ciascuna è insostituibile.

La famiglia più bella, protagonista e non problema, è quella che sa comunicare, partendo dalla testimonianza, la bellezza e la ricchezza del rapporto tra uomo e donna, e di quello tra genitori e figli. Non lottiamo per difendere il passato, ma lavoriamo con pazienza e fiducia, in tutti gli ambienti che quotidianamente abitiamo, per costruire il futuro.

Dal Vaticano, 23 gennaio 2015

Vigilia della festa di san Francesco di Sales

Francesco

SETTIMANA IN PARROCCHIA


APPUNTAMENTI DAL 25 AL 31 GENNAIO 2016

Lunedì
25 Gennaio


Ore 19.30: Prove del coro parrocchiale.

Ore 19.30: Incontro con i Ministri straordinari dell'Eucaristia.

Martedì
26 Gennaio


Inizio della Novena in preparazione alla solennità di Sant'Agata.
Mercoledì
27 Gennaio



Ore 18.30: Lectio Divina. Segue la S. Messa e l'Adorazione eucaristica.
Giovedì
28 Gennaio


Ore 19.30: Prove del coro parrocchiale.
Venerdì
29 Gennaio


Inizio del primo Venerdì dell'Addolorata.

Dopo la S. Messa delle ore 18.30, seguirà l'adorazione della S. Croce.

Sabato
30 Gennaio


Ore 19.00: festa di carnevale per i ragazzi dalla Prima Elementare alla Prima Media.

Domenica
31 Gennaio

Le SS. Messe avranno il seguente orario:

ore 7.00: S. Francesco d'Assisi.
ore 8.00: Monastero di S. Teresa.
ore 10.00: Basilica Cattedrale di S. Agata.
ore 17.30: S. Francesco d'Assisi.
ore 18.30: Basilica Cattedrale di S. Agata.