sabato 30 gennaio 2016

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDIONARIO

Nella quarta domenica del tempo ordinario, il brano del Vangelo di Luca (4,21-30) porta a termine l'episodio dell'andata di Gesù a Nazaret nella sinagoga, in giorno di sabato, con il seguito drammatico della scena: il tentativo di ucciderlo, gettandolo «giù dal precipizio» su cui si affacciava la ridente cittadina galilea. 
Dalla narrazione si evince chiaramente come l’evangelista, fin dal principio, intende adombrare quella che sarà la sorte futura del Messia: pur essendo mandato dal Padre, «nella forza dello Spirito», per attuare una missione di salvezza e di « liberazione » per i più poveri e gli oppressi e «per predicare un anno di grazia del Signore» (4,18-19), egli sarà respinto pro prio da coloro ai quali era principalmente mandato. 
Aveva rivendicato per sé una missione «profetica», at tribuendosi il passo di Isaia: allora dovrà anche pagare lo scotto che ogni «profeta» ha da pagare agli uomini, i quali avvertono sempre in lui un personaggio «sco modo», che viene a svegliarli dal loro quieto vivere, a proporre la fatica del «nuovo», a cambiare orienta mento per nuove mete e nuovo cammino.
Il «profeta», quando è vero, apre sempre gli oriz zonti di un mondo diverso: ognuno, per entrarci, deve diventare diverso, deve ricominciare da capo. Di qui la reazione, dapprima sorda e poi anche violenta: elimi nando il profeta o riducendolo al silenzio, si pensa di far tacere anche la propria coscienza che, al confronto con le sue parole, cominciava a risvegliarsi o a «pro blematizzarsi».
Gesù queste cose le sapeva benissimo dalla storia dei Profeti dell'Antico Testamento - di cui un esempio stu pendo è quello di Geremia, presentatoci dalla prima lettura della Liturgia odierna (Ger 1,4-5.17-19) - oltre che dalla coscienza sovrana che egli aveva di se stesso. Sintomatica la sua risposta a chi un giorno lo pregava di «fuggire» perché Erode cercava di ucciderlo, men tre egli era in quel lungo viaggio verso Gerusalemme che non finisce mai: «Andate a dire a quella volpe... È necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,32-33). È evidente il riferimento alla sua futura morte di cro ce, che avrebbe subito in quanto profeta.
Qui S. Luca ce ne riferisce come un anticipo, che per il momento non riuscì perché «non era ancora giun ta la sua ora», direbbe Giovanni (cfr. 2,4). «Al l'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò » (vv. 28-30). È grandiosa questa serenità di Cristo davanti all'affanna to agitarsi dei suoi nemici, questa sua «signoria» sul le forze stesse dell'odio e della morte! Cristo è «Signo re» anche prima della sua risurrezione: qui abbiamo un chiaro gesto del «dominio» di Gesù sulla «morte», ancor prima che avvenga.
Ma vediamo più in concreto come sia nata questa avversione mortale dei suoi concittadini contro Gesù.
Prima di tutto, ci deve essere stato un certo senso di invidia nel veder emergere a livelli troppo alti uno che, fino a poco tempo prima, era come tutti gli altri. Il commento che fanno: «Non è costui il figlio di Giu seppe?» (v. 22), ci orienta in questo senso. Non si com ponevano bene ai loro occhi due realtà apparentemen te troppo lontane: le sue origini umane comuni, addi rittura più umili di altri, e la sua dichiarata «pretesa» di essere colui nel quale «si era adempiuta la Scrittu ra» di Isaia sul misterioso «inviato» del Signore (v. 21).
Al di là della pur comprensibile invidia paesana, pe rò, è il «disagi » che Gesù impone a tutti quelli che lo avvicinano (ora i suoi concittadini, domani i suoi Apostoli, dopo domani noi e gli uomini di tutti i tem pi!) e che colgono in lui dimensioni contrastanti: l'uo mo più trito, quello di ogni giorno («figlio di Giusep pe »!), e «il più che umano» che appare dalla sua vita, dalla sua dottrina, dai suoi miracoli. È questo «miste ro» di Gesù che sconvolge e sconvolgerà sempre gli uomini.
Nel corrispondente racconto di Marco tutto questo è descritto in forma anche più vivace: «Venuto il sa bato a Nazaret, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: "Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?". E si scandalizzavano di lui» (Mc 6,2-3). Davanti a Gesù, che va al di là della misura comoda per tutti, la gente «si scandalizza», non cerca di andare oltre per tenta re di decifrare o, comunque, di scalfire il mistero! Di venta «incapace» di «credere», intendendo qui la «fe de» come esigenza di «protendersi» oltre il palpabi le e il percettibile, verso certi orizzonti che pur nell'agire di Gesù sembrano almeno baluginare. Gesù stes so, infatti, si meraviglia davanti a tale atteggiamento: «E si meravigliava della loro incredulità » (Mc 6,6).
Nel racconto di Luca il motivo della ostilità nei ri guardi di Gesù sembra essere anche più sottile! Esso nascerebbe da una specie di «accaparramento» che si vorrebbe fare di lui per motivi campanilistici: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stes so. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fal lo anche qui nella tua patria!» (v. 23). Si lamentano che abbia scelto Cafarnao per compiere i suoi prodigi, invece che Nazaret: quasi che il miracolo fosse un ge sto propagandistico o di reclamizzazione turistica! E non invece un gesto sovranamente «libero» di Dio, che lo fa dove vuole e per chi vuole, offerto come « se gno » da leggere e da interpretare a chi ha già fede o almeno una «disponibilità » a credere.
Proprio per questa indisponibilità dei «suoi» a cre dere, Dio ha scelto di compiere i suoi prodigi, già nel l'Antico Testamento, al di fuori della stessa Palestina: «Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anzi: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quan do il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova di Zarepta in Si done. C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro » (vv. 24-27). Se noi andassimo a rileg gere gli episodi qui richiamati, vedremmo di quanta fe de dettero prova la vedova di Zarepta (1 Re, capp. 17 e 18) e il generale Naaman il Siro (2 Re, cap. 5) al tempo dei due grandi profeti taumaturghi.
La «fede» allarga e dilata i confini della presenza e dell'azione di Dio: i cittadini di Nazaret, che volevano confinare Gesù a compiere miracoli per loro uso e pre stigio, non solo erano chiusi in un ottuso provinciali smo, in contrasto con i disegni universalistici di Dio, ma soprattutto erano incapaci di aprirsi alla fede, che è la esaltazione del « nuovo » e dell'imprevedibile di Dio.
Frustrati in questo, incapaci di aprirsi al «nuovo» universale, annunciato dal «profeta» che «era stato allevato» (v. 16) nella loro città, gli diventano ostili, lo respingono, addirittura tentano di ucciderlo. 
Il profeta, abbiamo detto, è sempre «scomodo», perché mette gli uomini davanti alle esigenze sempre nuove e implacabili di Dio. Un modo per disfarsene è quello violento, come quello usato allora dai Nazaretani e più tardi dagli Ebrei nei riguardi di Gesù: un al tro modo potrebbe essere quello di «chiudere» le orec chie per non ascoltarlo. È quanto è accaduto a moltis simi profeti dell'Antico Testamento: «Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: "Dice il Signore Dio: Ascoltino o non ascoltino... sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro"» (Ez 2,4-5; cfr. Is 6).
La tattica del rifiuto varia secondo i tempi, o le cir costanze, o l'educazione sociale! Ma il profeta vero è sempre un « emarginato » religioso e sociale.
Proprio per questo egli ha bisogno di una particola re « forza » di Dio, per non scoraggiarsi nella sua mis sione. Un esempio di tutto ciò lo abbiamo in Geremia, psicologicamente fragile e incerto, chiamato da Dio a un compito che lo atterrisce, tanto che inizialmente e anche successivamente tenta di sottrarvisi. Ma Dio lo incalza e lo rianima, dichiarandogli solennemente di stargli al fianco: «Tu, dunque, cingiti i fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro. Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giu da e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti » (Ger 1,17-19).
Solo contro tutti: anche quelli che gli avrebbero do vuto essere più vicini come i «capi» del popolo, o i « sacerdoti ». È quello che capitò a Gesù nell'incontro di Nazaret e, più spaventosamente ancora, sulla Croce!
Qualcosa che induce tutti noi a riflettere, per un dop pio motivo: il primo riguarda il nostro atteggiamento in rapporto a Cristo, il «profeta» di sempre. Egli non è un profeta scomodo per alcuni soltanto, ma per tutti « specialmente per i suoi». C'è da domandarsi se noi almeno ci lasciamo provocare dalle sue « profezie », la sciandoci trasformare, o gli poniamo certe condizioni, come tentarono di fare i concittadini di Nazaret, an che senza ricorrere alle forme dell'ostracismo violento.
Il secondo motivo riguarda il nostro atteggiamento verso gli altri, presso i quali dobbiamo essere i porta tori del messaggio «profetico» di rinnovamento e di trasformazione annunciatoci da Cristo. Abbiamo la for za di ergerci «come muro di bronzo contro il paese», come Dio ricorda a Geremia (1,18), non contando natu ralmente sulle nostre forze, ma sulla «potenza» della verità e sull'aiuto che viene da Dio? E oggi pare sia arri vato il tempo in cui i cristiani, come singoli e come Chiesa, debbono ritrovare il coraggio delle origini per proclamare al mondo che solo le «minoranze» che cre dono e amano hanno l'avvenire nelle loro mani.
Bisogna avere la forza « profetica » dello Spirito per riaffermare la modernità e la basilarità di certi valori che oggi rischiano tragicamente di oscurarsi nella co scienza dei più: si pensi al diritto alla vita del nascitu ro, conculcata dalla legge, alla dissacrazione del matri monio, alla pornografia, alla violenza generalizzata, alla ricerca spasmodica del piacere e del denaro.
Rimane però sempre vero che la testimonianza « pro fetica» più forte è quella dell'amore, come ci ricorda S. Paolo nel sublime elogio della «carità» (1 Cor 12,31-13,13), il «cari sma» più grande di tutti e che non deve mancare a nessun credente: « Se anche parlassi le lingue degli uo mini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la cari tà, non sono nulla... Queste dunque le tre cose che ri mangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità».

      Don Piero De Santis

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