sabato 18 giugno 2016

COMMENTO ALL XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO di don Piero De Santis

Il brano evangelico odierno (Lc 9,18-24) è composto di due parti strettamente collegate tra loro, che possono essere sintetizzate da due domande: chi è Gesù? Chi è il suo discepolo?
Nella prima parte Pietro, in risposta a un interrogativo po sto da Gesù, lo acclama quale «Cristo di Dio», quale Messia. E Gesù, dopo aver imposto ai Dodici il silenzio su questa identità, precisa immediatamente quale sia la sua messianicità: quella del «Figlio dell'uomo che deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Su questi versetti la chiesa ci invita a meditare anche nell'annata B, offrendoci il brano parallelo del vangelo secondo Marco (Mc 8,27-35: XXIV domenica del tempo ordinario, annata B) e ricordandoci che, con questo «deve», Gesù non allude a un destino crudele impostogli da Dio, bensì innanzitutto a una necessità umana: in un mondo ingiusto il giusto può solo essere osteggiato fino a essere ucciso se se ne presenta l'occasione (cfr. Sap 2). Gesù avrebbe potuto passare dalla parte degli ingiusti, allora l'ostilità verso di lui sarebbe cessata. Ma se egli affronta questa situazione continuando a vivere come giusto, ossia restando fedele a Dio, ecco che la necessità umana può anche essere letta come necessità divina: nel senso che la libera obbedienza alla volontà di Dio, che chie-de di vivere l'amore fino all'estremo, esige una vita di amore, anche a costo di una fine ignominiosa.
Ma il brano odierno ci consente anche di sostare più ap profonditamente sulle richieste fatte da Gesù a chi vuole seguirlo, ovvero sulle esigenze che dalla sua particolarissima messianicità discendono per i suoi discepoli. Gesù - annota Luca - non indirizza il suo sguardo solo alla sua piccola comunità, ma lo estende a «tutti»; rivolge delle precise richieste a tutti coloro che vogliono andare dietro a lui, mettendoli in guardia con chiarezza, anche a costo di scoraggiarli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». Sono parole a prima vista dure, che richiedono a noi una comprensione intelligente: non vanno intese in senso fondamentalista, alla stregua di «un programma di morte» (Bruno Maggioni) o di una chiamata all'auto-annientamento, né d'altra parte vanno edulcorate, come se fossero una semplice metafora.
Rinnegare se stessi significa smettere di voler affermare se stessi, lottare contro l'egoismo che sempre ci minaccia, contro quella terribile malattia che la tradizione cristiana ha definito «amore di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche contro e senza gli altri; una preoccupazione esclusiva per sé che induce a considerare il proprio io come misura della realtà. Chi vince questo egoismo mortifero cessa di essere ripiegato sui propri interessi e diventa libero di vivere per gli altri, di generare pensieri, parole e azioni finalizzate alla comunione fraterna. Allora può anche farsi carico della propria croce ogni giorno - precisazione solo lucana -, con faticosa perseveranza. Portare la croce è caricarsi dello strumento della propria esecuzione, rinunciando a difendersi e ad autogiustificarsi; è mostrare con la nostra vita quotidiana che niente e nessuno potrà mai impedirci di vivere il Vangelo, che è possibile trasformare anche l'ingiusta violenza che si scarica contro di noi in un'occasione per amare i nostri nemici. In questo stile di vita c'è chi ci ha preceduti, Gesù Cristo. Si tratta di seguirlo sempre, ovunque egli vada (cfr. Ap 14,4), certi che egli ha vissuto il cammino della croce come segno ultimo di una vita piena d'amore: non bisogna infatti leggere la vita di Gesù a partire dalla croce, bensì la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, Gesù, colui che ha trasformato uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria!

Queste tre istanze rimangono valide in tutta la loro radicalità, oggi come allora, e disegnano un cammino di vita piena e felice. La miglior interpretazione a esse la fornisce Gesù stesso, commentandole con quelle parole che costituiscono il vero fulcro della differenza cristiana: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Ecco l'intima verità del Vangelo: perdere la nostra vita per amore di Gesù Cristo è ciò che può giustificare ogni nostra rinuncia, è la vera beatitudine possibile già qui e ora. Ma se non comprendiamo questo, possiamo ancora dirci cristiani?

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