L’episodio
evangelico della guarigione dei lebbrosi ci sorprende: dei dieci
beneficati, uno solo sente il dovere di tornare a manifestare la sua
gratitudine. Ed è un Samaritano. Gli altri probabilmente credono che
ad essi tutto è dovuto. Ciò può verificarsi anche a livello di
famiglia o di lavoro: basta poco per dire “grazie”.
Benché
troppo umiliante per un uomo del suo rango sociale – capo
dell’esercito del re di Aram – Naaman si fida dell’«uomo di
Dio» e, lavandosi nel Giordano sette volte, ne esce guarito dalla
lebbra (I
Lettura).
Spesso
la fede chiede all’uomo di sovvertire la propria mentalità, i
propri schemi, i propri tempi, a volte chiede anche l’umiliazione
del cuore, che, tuttavia, produce l’obbedienza della fede e la
salvezza (Cfr. Sal 118,71). Tutto ciò prevede che moriamo a noi
stessi e al nostro orgoglio, per condividere la croce di Cristo e
così la sua gloria eterna (II
Lettura).
L’esempio
ci viene luminosamente dato da quell’unica persona lebbrosa che,
debitrice del miracolo di Gesù, torna a ringraziarlo: è un
Samaritano! Egli, considerato un reietto secondo i canoni del popolo
di Israele, vince l’amor proprio e gli schemi sociali e, gettandosi
ai piedi di Gesù, ottiene non solo la salute fisica, bensì ancor
più la salvezza (Vangelo).
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